Myroslav Gerasymovych, il poeta ucraino che ha donato la vita per l’Europa
La morte di Miroslav Gerasymovych, poeta e soldato ucraino, è un grido che risuona nel cuore del nostro continente. Caduto il 29 novembre 2024 nella regione di Donetsk, pochi giorni prima del suo cinquantasettesimo compleanno, Myroslav ha scelto di incarnare il destino che i poeti spesso cantano, ma raramente vivono. La sua è una storia che si intreccia con quella di un’Europa che, tra le macerie di un conflitto assurdo, fatica a ricordarsi di essere sogno, utopia, romanzo.
Un poeta nel cuore della guerra
Nato a Lutsk nel 1967, cresciuto tra le ombre lunghe dell’Unione Sovietica e le prime luci di un’Ucraina indipendente, Gerasymovych ha vissuto come un uomo che non si è mai concesso il lusso dell’indifferenza. Laureato in giornalismo a Kyiv, scrittore raffinato e sceneggiatore, ha trasformato la parola in arma e rifugio.
Con lo scoppio della guerra, Myroslav ha compiuto una scelta radicale: ha smesso di raccontare l’Ucraina per difenderla. Non con le metafore, ma con il corpo, con le mani che fino a quel momento avevano solo accarezzato penne e fogli. Si è arruolato volontario nel 2022, lasciando una vita fatta di pagine e silenzi per immergersi nel fragore delle bombe. Ma non ha mai smesso di scrivere.
Le sue poesie, nate in trincea, non erano un semplice diario di guerra: erano canti di liberazione, versi che raccontavano il sacrificio di una nazione intera contro l’invasore, trasformando il dolore e il sangue in speranza. Myroslav parlava al mondo intero, con la voce di chi sa che la libertà si costruisce nel fango e tra le rovine, e che la poesia può essere una spada più affilata di qualsiasi arma.
Un eroe europeo
Gerasymovych è morto a Donetsk, ma la sua anima appartiene a tutta l’Europa. Perché l’Europa, se ha ancora un senso, lo deve a uomini come lui: uomini che scelgono di credere in qualcosa di più grande del proprio tempo, della propria terra, perfino della propria vita. La sua battaglia non è stata solo per l’Ucraina, ma per quell’idea fragile e sublime di libertà che attraversa i secoli e unisce le nostre diversità.
Le sue poesie erano un manifesto di resistenza e un richiamo alla memoria. Ogni suo verso sapeva trasformare il conflitto in un atto di redenzione collettiva, in una lotta non solo per l’Ucraina ma per quell’idea universale di dignità umana che è il cuore stesso del sogno europeo.
L’Europa come romanzo
L’Europa deve smettere di pensarsi come una geografia o una burocrazia. Deve diventare un racconto, un intreccio di storie, un mosaico di personaggi e destini che convergono in un unico sogno. Myroslav Gerasymovych ne è il simbolo. La sua vita e la sua morte ci dicono che l’Europa è un progetto poetico, non politico. È il desiderio di uomini e donne di vivere uniti pur rimanendo diversi, di costruire una cattedrale invisibile fatta di parole, di gesti, di ideali.
Se non impariamo a raccontare l’Europa, la perderemo. Perché solo i racconti sopravvivono alle guerre, alle crisi, alle delusioni. E i poeti sono i custodi di questi racconti, i visionari che vedono oltre la nebbia del presente.
Il futuro è di chi lo immagina
Oggi, piangiamo Myroslav Gerasymovych come un eroe europeo. Ma domani dobbiamo raccogliere il suo lascito. La sua morte ci chiama a immaginare un futuro in cui l’Europa non sarà più una parola vuota, ma un poema vivente. E quel futuro inizia ora, con il coraggio di chi, come lui, crede che la bellezza e la libertà valgano ogni sacrificio.
Myroslav raccontava la guerra con i suoi versi. Il fango delle trincee, la paura della notte, il dolore delle perdite diventavano nelle sue mani materia viva, parole che potevano redimere e unire. In lui c’era la consapevolezza che la lotta per la libertà non appartiene solo ai soldati, ma anche a chi, come i poeti, sa vedere oltre.
L’Europa, alla fine, sarà o non sarà. Dipende da noi. Dipende da chi avrà il coraggio di raccontarla come Myroslav Gerasymovych l’ha vissuta: con una penna in una mano e un fucile nell’altra. Perché l’Europa non è solo un luogo. È un’idea. È una storia. È un sogno che dobbiamo imparare a sognare di nuovo.