La catastrofe in Siria è frutto del cinismo mascherato da pacifismo

Carmelo Palma
04/12/2024
Frontiere

Quando si sentono i grandi interpreti del realismo geopolitico censurare l’ingenuità internazionalista di un Occidente prigioniero del sogno dell’esportazione della democrazia e dell’estirpazione dell’autocrazia in Medioriente – dall’Iraq alla Libia – bisognerebbe immediatamente interromperne la prosopopea con un semplice: “E allora, la Siria?”.

La tesi realpolitica per cui l’Occidente, sabotando dall’esterno i vecchi regimi ereditati dalla stagione sovietico-arabista degli anni ’70, avrebbe messo a rischio l’unica possibile forma di stabilità mediorientale e lasciato spazio al disordine tribale, al fanatismo islamista e alle scorrerie mediterranee dei nemici dell’Occidente, si scontra contro un’evidenza solare e per questo negata.

Tutto questo è successo anche, anzi al massimo grado proprio in Siria, dove da tredici anni i Paesi occidentali si guardano bene dal mettere le dita negli ingranaggi di una guerra civile sanguinosa e contagiosa, consentendo ad Assad (figlio del vecchio compare ideologico di Saddam e Gheddafi), ai russi e agli iraniani di fare carne di porco di qualunque simulacro di umanità – armi chimiche comprese –  e lasciando come sola alternativa disponibile quella dei tagliagole salafiti, supportati dalla Turchia e tornati in auge dopo una sconfitta che pareva definitiva.

In Siria l’Occidente non ha messo piede, eppure ha solo nemici, tranne i curdi che controllano le zone a nord dell’Eufrate e che Donald Trump, durante la sua prima presidenza, aveva brutalmente scaricato dicendo che costavano troppo e non avevano fatto nulla per gli Usa durante la Seconda Guerra Mondiale.

Che il libero mattatoio mediorientale, l’ammazzarsi degli uni con gli altri potesse riprodurre un ordine spontaneo preferibile ai costi di un qualunque intervento occidentale, diretto e indiretto, militare o no, è apparsa a tutti un’idea così persuasiva che diventa difficile indicare un solo leader di governo occidentale che in questi anni abbia non dico proposto, ma ipotizzato una alternativa allo status quo di una guerra senza fine, destinata a intrecciarsi con tutte le altre guerre e a moltiplicarne gli effetti.

Metà dei siriani, ben dodici milioni, sono sfollati all’estero o all’interno del Paese. I civili morti o scomparsi sono almeno seicentocinquantamila. Le dimensioni e le proporzioni del disastro umanitario siriano sono oggi senza uguali al mondo. 

In Siria abbiamo testato quanto fosse fallace il teorema cosiddetto realista, secondo cui gli equilibri geopolitici del post Guerra Fredda potevano rimanere quelli dettati dalla “fisica della violenza” di aree di crisi, che invece proprio la fine dell’epoca dei blocchi ha reso più pericolose e ingovernabili. 

L’illusione – tanto cinica quanto stupida – era che la non ingerenza occidentale avrebbe confinato fuori dall’Occidente le conseguenze delle mattanze, a partire da quella considerata erroneamente più temibile, cioè l’alluvione migratoria, in particolare nell’Europa che negli ultimi due decenni ha temuto di più gli idraulici polacchi e i muratori rumeni dei soldati russi – abbiamo visto con quale chiaroveggenza.

Ora il pacifismo occidentale ha in Siria il suo monumento di vergogna e la sua catastrofe esemplare.