L’immigrazione irregolare e le politiche di Trump
Uno dei punti politici principali dell’epopea politica di Donald Trump è stato sicuramente la lotta all’immigrazione clandestina, che a volte ha raggiunto anche toni esasperati, come quando durante il dibattito presidenziale con Kamala Harris venne pronunciata la famosa invettiva contro gli immigrati mangiatori di cani e di gatti a Springfield, in Ohio (nonostante sia il sindaco della città che il governatore dello Stato, entrambi repubblicani, oltre che le forze di polizia, avessero definito le illazioni come non credibili e non supportate da nessuna prova). Risulta evidente come il neopresidente ha tutto il possibile per mantenere le sue promesse di deportare immigrati irregolari dagli Stati Uniti.
I costi economici delle deportazioni
È importante, a mio avviso, andare innanzitutto ad analizzare ciò che ci dicono i dati e la teoria economica sul tema delle deportazioni. Sul punto, è interessante analizzare un articolo del Brookings Institute in cui si fanno innanzitutto delle stime sul numero di immigrati regolari presenti all’interno degli Stati Uniti, numero che ammonta a circa undici milioni di persone, cifra che non tiene conto di tanti altri immigrati con situazioni lavorative e personali incerte. Rimanendo sui dati, cifre pubblicate da CNN Business (basate su dati del 2016) rivelano che una deportazione costa ai contribuenti circa 11.000 $, di cui quasi la metà soltanto per la detenzione, che in media dura 31 giorni, e quasi 2000 $ per migrante solamente per il trasporto su speciali voli charter. Con un semplice calcolo, supponendo che i costi siano questi e che tutte le deportazioni venissero effettuate, comporterebbe un esborso di circa 121 miliardi che, al netto di nuovo debito, toglieranno risorse ai cittadini americani, e questo senza nemmeno considerare la perdita di gettito sia per il bilancio federale e dei singoli Stati che per la Social Security e per il programma Medicare.
L’impatto delle deportazioni sul mercato del lavoro
L’altro aspetto fondamentale da andare ad analizzare e l’impatto deportazioni sul mercato del lavoro. Analizzando un articolo di diversi studiosi pubblicato sul Journal of Labor Economics, in cui si analizzano gli effetti delle politiche delle cosiddette Secure Communities, Le conclusioni di questo articolo fanno molto riflettere: si stima che per ogni 500.000 immigrati che vengono deportati vengano persi circa 44.000 posti di lavoro detenuti da cittadini americani. Si ritiene che due siano le spiegazioni plausibili: in primis, nei posti di lavoro che vengono svolti sia da immigrati sia da americani, si ritiene che questi ultimi presentino dei costi del lavoro più alti e che questo riduca la possibile creazione di nuovi posti di lavoro; la seconda spiegazione che viene offerta riguarda la diminuzione dei consumi all’interno delle comunità che ospitano queste persone, che quindi riduce il numero di posti di lavoro a causa della diminuzione di domanda, generando dei possibili circoli viziosi economici di deficit della domanda.
Se analizzassimo soltanto il lato economico della questione, quindi, potremmo arrivare alla conclusione che queste politiche siano assolutamente scellerate, anche per i supporter del movimento MAGA, dato che a seguito delle deportazioni anche tanti americani, che magari hanno votato Trump per non vedere il proprio posto di lavoro rubato da un immigrato, pagherebbero lo scotto di questa scelta. È importante però, a mio avviso, tenere conto del fatto che molto spesso i dati e le ricerche scientifiche non possono essere unici criteri di valutazione di scelte di carattere politico.
Su questo tema, bisogna registrare come le scelte del Partito Democratico siano state sempre orientate a garantire l’unitarietà della coalizione multirazziale che componeva il suo elettorato, venuta almeno in parte meno, accettando di sostenere politiche migratorie “liberal” anche a costo di perdere voti all’interno del bacino della classe operaia bianca. I sondaggi di opinione sul tema hanno rivelato come la percentuale gli americani che ritiene che agli immigrati irregolari non dovrebbe essere concesso di rimanere all’interno del paese sia passata dal 24% del 2020 al 35% dell’Agosto 2024.
Secondo un sondaggio del PEW Research Center, le motivazioni principali che vengono portate a sostegno di questa tesi sono essenzialmente tre: in primo luogo, l’86% di chi sostiene che gli immigrati irregolari non dovrebbero rimanere permanentemente negli Stati Uniti ritiene che mantenere queste persone all’interno del paese possa essere considerato come un incentivo ad infrangere la legge; l’81% pensa che una posizione morbida sull’immigrazione illegale sia poco giusta e corretta nei confronti di chi è entrato nel paese legalmente, spesso con procedure molto lunghe e costose in termini economici e di tempo. Questo ci permette di capire almeno in parte lo spostamento di tanti elettori latinoamericani verso il partito repubblicano (dal 28% che nel 2016 votò Trump al 42% delle ultime elezioni); infine, e qui ci rendiamo conto dello scostamento che esiste tra teoria economica e realtà politica, il 76% ritiene cruciale l’idea sulla base della quale l’immigrazione illegale comporti una perdita di posti di lavoro e di risorse in generale per i cittadini americani.
Ci sarà tantissimo da analizzare nei prossimi quattro anni sul tema delle migrazioni, a partire da cosa Trump farà davvero una volta che arriverà alla Casa Bianca a fine Gennaio, senza tralasciare però il necessario cambio di passo per il Partito Democratico riguardo le sue politiche migratorie (tema ritenuto molto importante per il 61% di tutti gli elettori), che nonostante la posizione forte sul tema del Presidente Biden (che spinse i repubblicani a votare no ad una legge bipartisan che avrebbe rafforzato in modo sensibile la protezione del confine, al fine di non garantire al Presidente una vittoria politica che sarebbe potuta essere molto rilevante) non sono stati evidentemente in grado di riuscire a proporre una visione appetibile neanche per tante fasce di elettorato che fino allo scorso novembre venivano ritenute come saldamente radicate ai democratici.