Il futuro dei democratici USA, tra fughe, derive a sinistra e spinte centriste

Michele Luppi
12/01/2025
Poteri

A pochi giorni dall’inaugurazione di Donald Trump, il Partito Democratico americano si trova in crisi profonda, visto come distaccato dalla realtà e lontano dalle richieste e dal sentimento del Paese. Sarà importante per loro riuscire a trovare la quadra dal punto di vista comunicativo e politico per poter ritornare ad essere competitivi anche a livello statale e locale, partendo dall’idea che soltanto con una migliore offerta politica i dem potranno vincere di nuovo, dato che tutte le vicende giudiziarie di Donald Trump non stanno limitando il suo supporto tra gli elettori.

Cominciamo parlando del Congresso

Trump ha la maggioranza in entrambe le camere (nonostante nella House le dimissioni di Matt Gaetz e la nomina di alcuni parlamentari a posizioni ministeriali garantiranno una maggioranza risicatissima ai Repubblicani almeno per qualche mese) e la sconfitta anche al voto popolare ha messo il Partito Democratico in una posizione estremamente complessa in cui almeno fino al 2026 si troveranno sostanzialmente impossibilitati a portare avanti un’opposizione forte e concreta in parlamento.

L’impressione di sempre più analisti

L’impressione di sempre più analisti e figure politiche converge su un tema: il Partito Democratico è diventato quasi da rifuggire, e sono sempre di più le campagne elettorali in cui soggetti appartenenti al partito si distanziano dalla linea politica nazionale per poter avere maggiori chance di elezione. Si pensi a rappresentanti come Marie Gluesenkamp Perez, che a novembre ha vinto per la seconda volta consecutiva in un distretto storicamente rosso nello Stato di Washington, in cui un candidato presidente Democratico non vince dal 2008 e che non eleggeva un deputato dem dal 2011.

Un esempio significativo

Gluesenkamp Perez, considerata come la parlamentare dem più a rischio, è riuscita a ribaltare le attese dei suoi detrattori addirittura ampliando il margine di scarto della sua vittoria rispetto al 2022. A sua detta, però, la sua vittoria deriverebbe dalla capacità avuta a non rendere la campagna elettorale un riflesso di quella nazionale, e anzi cercando di distanziarsene il più possibile, concentrandosi sul fortissimo rapporto che si è formato con il territorio e sulla capacità di saper ascoltare e agire rispetto alle necessità dei propri elettori.

Il caso di Mike Duggan

Un altro caso importante riguarda Mike Duggan, sindaco di Detroit dal 2014 e appartenente al partito democratico da 40 anni, che ha annunciato che nel 2026 si candiderà a Governatore del Michigan da indipendente, sottolineando come a suo avviso il paese sia stanco del sistema bipartitico e che solo candidandosi da indipendente si può governare facendo il bene delle persone. Con tutta probabilità, la mossa è funzionale ad evitare le movimentate primarie democratiche (che probabilmente vedranno come partecipante anche Pete Buttigieg, ormai ex Segretario ai Trasporti nell’amministrazione Biden) e a poter risultare attrattivo anche per elettori repubblicani che potrebbero apprezzare la figura di Duggan, che pochi giorni fa ha annunciato un grande calo degli omicidi, delle sparatorie e delle rapine di auto a Detroit, ma che probabilmente non lo voterebbero da candidato del Partito Democratico.

Il caso della Florida

Altri hanno deciso direttamente di optare per l’uscita dal partito Democratico verso i loro avversari dei Repubblicani: è il caso di due deputate statali della Florida, Susan Valdes e Hillary Cassell. La prima ha deciso di lasciare il partito perché “stanca di essere nel partito della protesta”, mentre la Cassell ha menzionato “il fallimento del partito Democratico a supportare inequivocabilmente Israele” e “l’incapacità del partito di riuscire a parlare con la gente della Florida”.

Il dominio dei Repubblicani in Florida

Con queste due defezioni, che portano la maggioranza dei Repubblicani nella Camera statale a 86 contro 34, si certifica il dominio assoluto del GOP in uno Stato che aveva deciso le elezioni del 2000 per una manciata di voti, vinto nel 2012 da Obama e che invece nel 2024 ha visto Trump vincere di 13 punti, segnalando una crisi profonda che dovrà necessariamente essere risolta il prima possibile, perché se i Democratici vogliono tornare ad essere competitivi e ad eleggere Presidenti, dovranno necessariamente lavorare su uno Stato che elegge 30 grandi elettori e che è composto al 40% da ispanici ed afro-americani, storici target democratici che nelle ultime elezioni si sono però mossi verso Trump.

La necessità di una ristrutturazione

È evidente come i dem siano in crisi profonda, con una leadership da ricostruire e con una seria ristrutturazione che dovrà necessariamente cominciare con una presa di coscienza: servirà ripartire da zero. Il restauro del partito dovrà partire da un’autopsia accurata, simile a quella intrapresa dai Repubblicani nel 2012 dopo la sconfitta di Mitt Romney contro Barack Obama (i risultati del progetto saranno completamente scartati dall’avvento di Donald Trump nel 2016), che riesca ad individuare i giusti correttivi per quelle policy che hanno alienato gli elettori storici dem, dalla classe bianca operaia alle minoranze ispanica e afroamericana.

Il report del Third Way

Sul tema, il think-tank centrista Third Way ha pubblicato un interessante report che tenta di dare risposta ad alcune di queste importanti domande. I loro sondaggi hanno rivelato infatti che gli elettori si fidavano molto più di Trump e dei Repubblicani sull’immigrazione, sul crimine, sul costo della vita e anche, paradossalmente, sul tema della salute della democrazia (50% si fida più di Trump contro il 49% per Kamala Harris). Inoltre, il 60% degli elettori intervistati ha sostenuto che Kamala Harris ai loro occhi non rappresentava un vero cambiamento quanto una continuazione del mandato e delle politiche di Joe Biden.

Spostarsi al centro

Il punto più importante del report riguarda le interviste condotte riguardo al futuro del Partito Democratico e della strada da intraprendere: di fronte a due possibili proposte di policy su un tema, una più centrista e una più spinta a sinistra, gli elettori si sono trovati maggiormente d’accordo con la proposta più centrale, soprattutto sui temi che hanno rallentato di più i dem in campagna elettorale come il crimine, l’economia e la gestione della crisi climatica. L’indicazione del think tank è chiara: i democratici dovranno spostarsi al centro per creare quelle grandi coalizioni che hanno contribuito enormemente all’elezione di Presidenti come Bill Clinton e Joe Biden.

L’esempio del Laken Riley Act

Il Laken Riley Act, promosso dai Repubblicani ma votato alla Camera da 48 democratici e sostenuta al senato da democratici come John Fetterman e Ruben Gallego, è stata l’occasione per dimostrare uno spostamento, seppur parziale e forse ancora poco indicativo, dei dem verso posizioni più centriste sul tema dell’immigrazione. Questo disegno di legge prevede che il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale (DHS) trattenga determinati cittadini non statunitensi che sono stati arrestati per reati di furto, scasso, appropriazione indebita o furto nei negozi.

Kamala Harris e il futuro del partito

Per poter analizzare il futuro del Partito Democratico nazionale, però, servirà analizzare attentamente le mosse di Kamala Harris. La candidata alle scorse elezioni, infatti, gode ancora di un forte supporto interno, con tanti addetti ai lavori che ritengono che la sua campagna elettorale sia stata energica e positiva (74 milioni di voti non li prende chiunque), volta soprattutto a ricucire in tempi strettissimi il divario che si era creato nei sondaggi dopo la disastrosa performance di Biden al primo dibattito presidenziale di questa estate.

Il ruolo di altri leader democratici

Inoltre, non esiste in questo momento una figura di rilievo del partito che possa paragonarsi ad Harris in termini di visibilità e di notorietà nel Paese, e questo dato potrebbe spingere la vicepresidente a spingere subito forte per consolidare la sua figura e cominciare a plasmare una sua eventuale candidatura smussando le posizioni che meno sono piaciute, mantenendo e ampliando le relazioni politiche con i dem di tutto il Paese. Ancora tutto da vedere però, dato che alcune fonti riportano la volontà di Kamala Harris di sostituire Gavin Newsom come governatore della California, con quest’ultimo che potrebbe essere un potenziale candidato alle primarie del 2028 (anche se la sua gestione degli incendi di Los Angeles lo ha sottoposto a pesantissime critiche che potrebbero compromettere una sua eventuale candidatura nazionale) insieme a tanti altri governatori come Josh Shapiro della Pennsylvania, Gretchen Whitmer del Michigan (che nel 2026 dovrà lasciare la carica di governatore) o J.B. Pritzker dell’Illinois.

Conclusione

In conclusione, siamo di fronte ad una fase di crisi profonda del Partito Democratico, che affronterà due anni di controllo repubblicano del Governo e delle due camere, con la necessità urgente di rinnovarsi e riconquistare la fiducia di un elettorato che sembra ormai lontano dalle sue tradizionali proposte. La crescente frattura interna, le defezioni verso i Repubblicani e la difficoltà di attrarre nuovi consensi, soprattutto in Stati chiave come la Florida, dimostrano che senza un serio rebranding e una revisione profonda delle proprie politiche, il partito rischia di restare marginale nel panorama politico americano. La ricerca di un equilibrio tra il ritorno a posizioni centriste e la gestione delle spinte più progressiste sarà fondamentale per costruire una coalizione vincente e per attirare consensi che saranno cruciali nel definire gli assetti della politica americana e internazionale negli anni a venire.