Il suicidio economico europeo, e come rinascere
Stando alle previsioni autunnali della Commissione Europea, nel 2024 il Pil dell’eurozona dovrebbe riportare una crescita dello 0.7-0.8% su base annua. Si tratta, se si esclude il crollo del -6.1% imputabile alla pandemia nel 2020, del secondo valore più basso registrato negli ultimi 10 anni dopo il dato del 2023, in cui il rialzo si era limitato a un misero +0.4%. A gravare, come noto, vi è la battuta d’arresto di economie – su tutte quella tedesca – che per decenni hanno trainato l’intera area, talvolta contribuendo a rendere meno evidenti le enormi difficoltà che attanagliano sempre più Paesi del continente, a cominciare dall’area del Mediterraneo.
Osservando la serie storica del Pil dell’eurozona, balza immediatamente agli occhi quanto il dramma della crescita asfittica sia una patologia divenuta ormai cronica. Per giunta, la variazione su base annuale del Pil, da sola, non è sufficiente a contestualizzare la malattia che ha contagiato l’Europa, che si palesa in tutta la sua gravità solo se posta in prospettiva e confrontata con gli indicatori economici delle principali potenze mondiali.
In un suo tweet, Ole Lehmann, imprenditore tech e brillante commentatore tedesco, fa notare che nel 2008 il Pil europeo e quello statunitense erano testa a testa, attestandosi entrambi intorno ai 14 triliardi di dollari. Ad oggi, invece, con un Pil che sfiora i 28 triliardi, l’economia statunitense risulta essere del 50% più grande di quella di tutta l’Unione Europea, cresciuta in modo trascurabile rispetto al dato rilevato nel momento di sostanziale parità tra le due potenze. Nello stesso breve lasso di tempo, per giunta, abbiamo assistito anche al sorpasso di Pechino su Bruxelles, avvenuto nel 2018. Il tutto in 17 anni, ossia nell’arco di tempo di una sola generazione.
Quali sono, dunque, le ragioni alla base di quello che Lehmann, appropriatamente, definisce “il suicidio economico europeo”? Le cause di una perdita di competitività tanto profonda quanto repentina hanno carattere meramente economico o il divario, che oggi appare incolmabile, affonda le proprie radici in sostanziali differenze politiche e culturali?
“Mentre l’Europa discute dell’etica dell’intelligenza artificiale, l’America la crea. Mentre l’Europa regolamenta le criptovalute, l’America le innova. Mentre l’Europa protegge le vecchie industrie, l’America ne crea di nuove”. Così l’imprenditore tedesco sintetizza la radicale divergenza di paradigma che ha condotto l’Unione Europea a sviluppare un’autentica assuefazione all’iper-regolamentazione e alla burocratizzazione spasmodica di ogni ambito del tessuto economico, a testimonianza di una radicata mentalità avversa al business e all’innovazione.
Tra gli indicatori di quelle divergenze che, al di là e molto più del Pil, raccontano un profondo divario strutturale e un ritardo ormai cronico vi è la produttività del lavoro, che negli Stati Uniti supera del 30% quella media europea – soprattutto in settori altamente specializzati come l’hi-tech. Contemporaneamente, in Europa si è preferito mantenere inalterato e perfino tutelare uno status quo asfittico, piuttosto che incentivare l’innovazione. La maggiore quota di Pil che gli Stati Uniti destinano a investimenti in ricerca e sviluppo si traduce nella creazione di distretti, come quello della Silicon Valley, in cui il sostrato culturale, fiscale, giuslavoristico e normativoconsente una concentrazione di capitali e talenti tale da permettere al Paese di disporre di più della metà dei cosiddetti “unicorni” – intesi come startup tecnologiche valutate oltre un miliardo di dollari – che operano oggi a livello globale.
Il risultato è che, nel frattempo, gli Stati Uniti hanno dato i natali a ben nove nuove aziende valutate più di un triliardo di dollari, mentre l’Europa non ha contribuito in alcuna misura a rimpolpare tale classifica. Addirittura, come fa notare Politico in un suo elenco puntato di ragioni per cui l’America ha surclassato il vecchio continente, negli ultimi cinquant’anni in Europa non è stata fondata nemmeno un’azienda che abbia raggiunto il valore di 100 miliardi di dollari. Ha sede sul suolo americano, al contrario, il 73% delle trenta più grandi aziende al mondo nel settore dell’high tech.
Non a caso, nel Rapporto Draghi, documento sul futuro della competitività europea presentato lo scorso settembre alla Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen, l’ex Presidente della BCE e del Consiglio dei Ministri italiano esprimeva preoccupazione per come “molti imprenditori europei preferiscono cercare finanziamenti da venture capitalist statunitensi e far crescere i loro business in quel mercato” piuttosto che rimanere in UE.
Ne derivano anche ingenti differenze salariali che, come noto, sono tra le principali ragioni alla base della fuga in massa di giovani cervelli europei, che esacerba la piaga sociale del crollo della natalità in un continente sempre più anziano. Questione, quella di una popolazione che invecchia e non fa più figli, a cui la stessa trattazione di Politico dedica un altro paragrafo, evidenziando come un tasso di natalità così basso corroda la quantità di individui in età lavorativa e condanni la spesa pensionistica e sanitaria dei Paesi europei a raggiungere proporzioni insostenibili.
Mentre la cultura statunitense celebra gli imprenditori e i pionieri, la vulgata europea, che li ritrae come avidi sfruttatori, finisce per legittimare un tessuto improduttivo e vessatorio, in cui un diritto del lavoro immobilista rende impossibili sia le assunzioni che i licenziamenti, la pressione fiscale spazza via le piccole imprese e i costi che le aziende devono sostenere per adeguarsi a una leviatanica mole di norme in continuo cambiamento sottrae ingenti risorse agli investimenti in innovazione. D’altronde, come sottolinea Lehmann, se negli USA bastano 4 giorni per fondare un’impresa, in Francia ne servono addirittura 84. Non a caso, infatti, lo stesso Emmanuel Macron sostiene che il ritardo accumulato dall’UE nei confronti di USA e Cina sia da imputare a un eccesso di regolamentazione e a un deficit di investimenti.
Poche ore ci separano ormai dall’insediamento della nuova amministrazione Trump e, sebbene vi siano ancora dubbi e interrogativi circa l’indirizzo politico del secondo mandato del tycoon – soprattutto in tema di geopolitica – quel che appare evidente è che l’Europa sarà chiamata a una crescente indipendenza dal sostegno politico e militare del suo più storico alleato. I nuovi equilibri che si vanno configurando, dunque, impongono il raggiungimento di una dimensione economica tale da impedire che venga relegata al ruolo di “cameriera degli Stati Uniti”, per ricorrere alla triste immagine dipinta dalla pubblicazione spagnola Política Exterior.
Abbattere drasticamente la pressione fiscale, riformare il mercato del lavoro e dare il via a un processo di deregolamentazione senza precedenti, che liberi il tessuto produttivo e imprenditoriale da ogni ostacolo: un disegno politico, questo, che rappresenta l’unico e ultimo argine all’irrilevanza e alla subalternità sullo scacchiere globale.