Medio Oriente: l’Arabia Saudita è la chiave, non la destra oltranzista israeliana
L’Arabia Saudita ha lanciato nelle scorse ore un messaggio inequivocabile a Donald Trump e a Benjamin Netanyahu: “Non ci sarà alcuna normalizzazione con Israele senza la creazione di uno Stato palestinese indipendente“. Non è una posizione nuova in sé, ma il tempismo della dichiarazione riflette una crepa che si è aperta tra Riad e Washington a seguito delle parole usate dal presidente americano sul futuro di Gaza. “Gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia di Gaza“, ha dichiarato durante la conferenza stampa congiunta avuta ieri con il premier israeliano, non escludendo peraltro nemmeno l’invio di truppe americane: “Faremo ciò che è necessario. Se sarà necessario, lo faremo. Prenderemo il controllo di quella zona, la svilupperemo, creeremo migliaia e migliaia di posti di lavoro, e sarà qualcosa di cui tutto il Medio Oriente potrà essere molto orgoglioso“.
Chi vivrà a Gaza secondo il piano di Trump?
Le dichiarazioni di Trump sono apparse un evidente sponda alla destra più nazionalista israeliana, allergica alla soluzione dei due Stati. A domanda esplicita sul supporto della sua Amministrazione alla soluzione dei due stati (che – ricordiamo – è la posizione ufficiale pluridecennale di Washington), Trump è stato volutamente evasivo: “Non significa nulla riguardo a uno stato, due stati o qualsiasi altro stato, significa che… vogliamo dare alle persone una possibilità di vita (…) Immagino che vi vivranno persone da tutto il mondo, persone del mondo intero. (…) Anche i palestinesi, i palestinesi vivranno lì, molte persone vivranno lì“.
Da qui, la presa di posizione molto netta e priva di ambiguità diplomatiche di Riad: la soluzione dei due Stati è condizione sine qua non per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e il suo importante vicino del Golfo.
Se l’amministrazione Trump continuerà a ignorare questa condizione, il sogno di una Pax Mediorientale basata sul modello degli Accordi di Abramo rischia di svanire. D’altronde, questa era la condizione che i sauditi ponevano a Tel Aviv anche prima del 7 ottobre 2023 e che era alla base delle interlocuzioni tra i due paesi e delle primi timide ma simboliche occasioni di incontro pubblico. Rispetto agli attentati del 7 ottobre e alla reazione imponente di Israele, Riad rivendica – a buon diritto – di non essere caduta nella trappola dell’asse dell’Iran con le sue “proxy con la H” (Hamas-Hezbollah-Houthi) e di aver anzi tenuto a bada le pulsioni anti-israeliane che animavano il mondo arabo. E oggi, dunque, chiede che il percorso della normalizzazione torni nei binari e non deragli.
Ma c’è un punto che si fa fatica ad ammettere, nelle capitali occidentali, in Israele e nella stessa Riad: il vero attore chiamato a fare la differenza è proprio l’Arabia Saudita. Per Riad, è arrivato il momento di compiere un salto dimensionale: non più solo garante simbolico della causa palestinese, ma vero motore della sua concretizzazione. Dalla ricostruzione di Gaza alla costruzione delle fondamenta istituzionali di un futuro Stato palestinese, il peso geopolitico del regno saudita sarà determinante. Se la monarchia vuole imporsi come la potenza di riferimento del mondo arabo, dovrà dimostrare di saper tradurre la propria influenza in azione.
Perchè Riad non può consentirsi di mollare la causa palestinese
Durante il suo primo mandato, Trump ha tentato di ridefinire il Medio Oriente con un approccio pragmatico: investimenti economici in cambio di riconoscimenti diplomatici. Con gli Accordi di Abramo, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Oman, e poi Marocco e Sudan, avevano normalizzato i rapporti con Israele senza che la questione palestinese venisse realmente affrontata. Riad, invece, era rimasta alla finestra. Per chi prova a capire più in profondità possibile le dinamiche regionali, l’attendismo saudita non era una novità: i suoi vicini (in primis gli Emirati Arabi Uniti) possono permettersi un approccio più “mercantile”, ma il regno di Al Saud deve tenere fede al suo compito di custode delle città sante dell’Islam, e dunque di protettore irrinunciabile della causa palestinese. Sbaglia chi non considera i sentimenti dell’opinione pubblica come un elemento di chi anche una monarchia assoluta deve tener conto, soprattutto se a guidarla de facto non è un principe (Mohamed bin Salman) che erediterà il trono in quanto erede diretto, ma in quanto scelto (tra i tanti aventi diritto per sangue) e che dovrà ancora lungo proteggere la sua posizione fino a quando l’attuale Re non dovesse abdicare o passare a miglior vita.
Per la leadership israeliana, è venuto il momento di scegliere se far nascere un’inedita e solida alleanza con Riad, o vivere in una perenne condizione di isolamento e di tensione bellica. L’Arabia Saudita è oggi l’unica potenza regionale realmente in grado di assumersi la responsabilità di costruire un assetto di sicurezza insieme alla stessa Israele. È il paese con la forza finanziaria per guidare la ricostruzione di Gaza e il processo di costruzione statuale, e con l’influenza politica necessaria per ridisegnare la governance palestinese.
Il bivio per Israele e l’Arabia Saudita
Sia Israele che l’Arabia Saudita sono dunque a un bivio: scegliere se rimanere impantanati in un eterno status quo fatto di conflitti ciclici e instabilità, oppure compiere il salto necessario per garantire una stabilità duratura alla regione.
Per l’Arabia Saudita, la sfida è chiara: trasformarsi da garante simbolico della causa palestinese a vero architetto della sua realizzazione. Questo significa abbandonare la retorica e assumersi la responsabilità concreta della ricostruzione di Gaza, della creazione delle istituzioni necessarie a uno Stato palestinese funzionante e della garanzia di sicurezza per Israele. L’Arabia Saudita ha i mezzi economici e l’influenza politica per farlo, ma deve dimostrare di avere anche la volontà di assumere un ruolo attivo e pragmatico nella costruzione della pace.
Per Israele, la scelta è altrettanto complessa: continuare a insistere su una visione di sicurezza fondata esclusivamente sulla deterrenza militare o accettare che la vera stabilità passa per un accordo storico con il mondo arabo, e in particolare con il paese più ricco e influente. La normalizzazione con l’Arabia Saudita rappresenta l’ultima grande opportunità per Israele di rompere l’isolamento strategico nella regione. Tuttavia, senza concessioni reali sulla questione palestinese, questa possibilità potrebbe svanire per anni, se non per decenni.
Per gli Stati Uniti, e in particolare per l’amministrazione Trump, la crepa apertasi con l’Arabia Saudita segna un passaggio critico. Se Washington continuerà a ignorare le richieste di Riad e a sostenere incondizionatamente le posizioni più oltranziste della destra israeliana, rischia non solo di compromettere la possibilità di un grande accordo israelo-arabo, ma anche di perdere influenza nel Golfo. L’Arabia Saudita potrebbe avvicinarsi maggiormente ad attori come la Cina e la Russia per riequilibrare il proprio posizionamento geopolitico, indebolendo ulteriormente l’egemonia americana nella regione.
Il futuro del Medio Oriente non si deciderà solo nelle stanze del potere di Washington, Tel Aviv o Ramallah, ma anche a Riad. Il messaggio saudita è chiaro: la normalizzazione con Israele non è un’opzione senza un vero Stato palestinese. La domanda ora è se Israele e gli Stati Uniti sono pronti a cogliere questa occasione storica o se, ancora una volta, la pace verrà sacrificata sull’altare di calcoli politici miopi.