Uber per il bere comune

Nico Di Florio
14/03/2025
Interessi

A tre mesi dall’entrata in vigore del nuovo Codice della Strada, il settore della ristorazione italiana sta vivendo un momento drammatico, con un impressionante calo dei consumi di bevande alcoliche. Un’indagine realizzata su un campione di 20.000 ristoratori ha rivelato che il 59% di essi ha registrato una contrazione del fatturato, evidenziando una preoccupante flessione degli incassi.

Nonostante i limiti alcolemici siano rimasti invariati, la combinazione della nuova legge, l’inasprimento delle sanzioni ed una martellante campagna di demonizzazione del consumo di alcolici hanno generato una forte percezione di rischio tra i clienti. Questa percezione ha avuto un impatto diretto sul comportamento dei consumatori, che non hanno soltanto ridotto il consumo di alcolici nei ristoranti, ma hanno semplicemente deciso di starsene a casa.

Fossi nel Governo non sottovaluterei questo fenomeno.

L’Italia è un paese costellato di centri storici e piccoli borghi, luoghi che attirano visitatori nel weekend magari soltanto per gustare un pranzo tipico, sorseggiare un buon bicchiere di vino e godere di passeggiate tra le bellezze architettoniche e naturali. Vivendo nell’entroterra abruzzese, posso testimoniare gli effetti drammatici dello spopolamento dei nostri piccoli comuni. Gli ultimi eroi rimasti sono proprio loro: gli esercenti della ristorazione e produttori di specialità tipiche, quali vino, olio, formaggi. Senza la loro resilienza la maggior parte dei piccoli borghi morirebbe. Ma è fondamentale comprendere che la morte dei piccoli centri storici non è solo un problema locale, bensì una minaccia per l’intera identità culturale dell’Italia.

Orbene, arrivo al punto. Sia chiaro, è giustissimo e sacrosanto occuparsi di sicurezza stradale. Quindi, sotto questo profilo, Salvini per una volta ha fatto qualcosa di utile. Ma come salvare l’economia dei centri storici e, quindi, l’identità culturale italiana? La soluzione esiste ed è anche molto semplice: si chiama Uber.

Molti italiani non la conoscono, banalmente, perché da noi non c’è (o meglio è stata resa del tutto inefficace in quanto collegata ai soli titolari di licenza). Eppure, chi è solito viaggiare, conosce bene Uber e servizi similari e ne rimane entusiasta, in quanto rappresentano soluzioni di trasporto sicure e accessibili per i clienti (di solito bastano pochi euro per una corsa), conciliando così necessità di sicurezza e sostenibilità economica del settore.

Si tratta dei servizi di car pooling che hanno avuto origine negli Stati Uniti e si sono poi diffusi in tutto il mondo (ahimé, tranne in Italia) favorendo mobilità, nuovi posti di lavoro e crescita economica. Questa piattaforma collega autisti privati, che sono partner del servizio, a utenti in cerca di un modo per raggiungere le loro destinazioni. Utilizzando un’applicazione gratuita per dispositivi mobili, gli utenti possono richiedere una corsa e ricevere informazioni aggiornate in tempo reale sull’arrivo dell’autista e sui costi del servizio. Possono scegliere la tipologia di auto ed anche lasciare una mancia laddove abbiano trovato il servizio di particolare gradimento. Una volta giunti a destinazione, l’importo della corsa viene addebitato sul conto dell’utente, secondo la modalità di pagamento selezionata al momento della prenotazione. Facile, democratico, moderno. Ma non per gli italiani. Questo sistema rappresenta una soluzione comoda e flessibile per spostarsi in sicurezza e senza il pensiero di dover guidare, particolarmente utile per coloro che desiderano godere di un drink durante una serata.

Ma perché in Italia non abbiamo Uber? Facile. Perché esiste un lobby, quella dei tassisti, che tiene in ostaggio un intero paese supportata da una politica clientelare con la quale ha stretto un patto scellerato che, finora, nessuno è riuscito a scalfire. E chi dovrebbe occuparsi della liberalizzazione del settore dei trasporti? Facile anche questa. Sempre lui, quello del nuovo codice della Strada: Matteo Salvini.

Consentendo l’uso di app di ride-sharing, si offrirebbe ai consumatori la libertà di godere di un bicchiere di vino senza timore di sanzioni, promuovendo al contempo una cultura della responsabilità e della sicurezza.

Ma una politica asservita agli interessi di categoria impedisce la modernità del paese e sta letteralmente uccidendo i nostri centri storici e, quindi, l’intero patrimonio culturale italiano (ma questo non era il governo dei patrioti?).

Per non far incazzare qualche decina di migliaia di titolari di licenza si preferisce mettere a rischio la nostra tradizione eno-gastronomica e l’economia dei piccoli centri urbani. E se ad incazzarsi stavolta fossero i ristoratori, magari, insieme agli altri 59 milioni di persone che pretendono di vivere in un paese libero e moderno? Nelle prossime settimane, insieme agli amici de L’Europeista, lanceremo una petizione (“Uber per il bere comune”) a favore della concorrenza e per liberare l’Italia dalle lobby che impediscono servizi di mobilità sicura ed accessibile a tutti, anche a chi vuol concedersi un bicchierino.