L’America Latina oltre gli stereotipi: intervista con Loris Zanatta

Da qualche settimana si sono conclusi i lavori per i due accordi di libero scambio con il Messico e con l’area Mercosur (che include il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay, il Paraguay e virtualmente il Venezuela).
Le scelte erratiche di Trump, poi, hanno fatto apparire ancora più urgente questo riavvicinamento.
Ma quanto sappiamo davvero gli uni degli altri? Gli abitanti di quei sei paesi ci somigliano più o meno di quanto immaginiamo? Ne abbiamo parlato con il prof. Loris Zanatta, docente di Storia dell’America Latina all’Università di Bologna.
Buonasera professore. Leggendo i dati, risultano discendenti di europei il 96% degli argentini, tra l’80% e il 90% dei brasiliani, il 93% dei messicani e dei venezuelani. Eppure, quando pensiamo a questi paesi, pensiamo a posti molto diversi dall’Europa. È una percezione corretta?
È una percezione corretta a metà. L’America Latina è un continente perlopiù meticcio: per i suoi abitanti l’origine europea indubbiamente conta, ma conta altrettanto quella autoctona. Sostenere, però, che da questa diversità etnica derivi anche una diversità nei princìpi, nei valori e nella cultura politica non è del tutto corretto.

Il mondo latinoamericano infatti deriva dal mondo ispanico della Controriforma. Modernità, secolarizzazione e liberalismo, che nei paesi protestanti dell’Europa del nord si erano diffusi spontaneamente (per motivi che sarebbe troppo lungo elencare), nei paesi cattolici si dovettero invece scontrare con la “corazza della Cristianità”, che non faceva distinzioni tra il suddito e il fedele e riassorbiva l’individuo nella collettività.
Questo scontro avvenne anche nei paesi latinoamericani. Che peraltro, avendo l’Oceano di mezzo, erano stati considerati un laboratorio per realizzare la società cristiana ancora meglio di quanto non avvenisse in Europa. Proprio a causa di questa resistenza maggiore, spesso nelle Americhe si dovette creare il cittadino moderno dall’alto, imponendo paradossalmente le istituzioni liberali attraverso dei regimi autoritari.
Secondo lei, quanto le nuove generazioni sentono ancora il legame con quell’ideale di società cristiana e quanto, invece, attraverso Internet e il cambiamento nei consumi, si stanno omologando a quelle del Nord America o dell’Europa?
Si parla troppo poco dell’enorme cambiamento portato dall’apertura del “mercato religioso” nell’America Latina. In molti paesi i cattolici non sono più la maggioranza. Inoltre, gli abitanti dei centri urbani, soprattutto i più giovani, viaggiano più che in passato e diventano sempre più cosmopoliti. Un mio collega brasiliano mi parla senza problemi di “Grande Europa” estesa alle Americhe.
Questo pluralismo, però, non significa che anche la politica si stia desacralizzando. Al contrario.
Anche un leader filo-occidentale e aperto al libero mercato come Javier Milei si presenta come un nuovo fondatore di religioni, un caudillo mondiale che si erge al di sopra delle leggi. Anche tra i protestanti latinoamericani c’è chi ha a sua volta un’idea della politica come guerra di religione.
Penso a certi sostenitori di Jair Bolsonaro! Veniamo invece alle bizze di Trump. Hanno già spinto i canadesi a riscoprire le loro affinità con gli europei e a cercare protezione nell’Europa. Potrà accadere qualcosa di simile anche con il Messico e con i paesi dell’area Mercosur?
Se Trump pensa di rendere di nuovo l’America grande con l’attuale strategia, si illude. Il successo delle grandi potenze si fonda sulla loro capacità di elevarsi a modello per gli altri. Scontrarsi con tutti, come sta facendo Trump, non porta da nessuna parte ed è soltanto pericoloso.
Tra i paesi dell’area Mercosur, il Brasile ha sempre avuto una politica estera pragmatica: è entrato nei Brics ma badando a non rompere i rapporti con gli Stati Uniti, si sta aprendo alla penetrazione cinese ma insieme valuta l’accordo di libero scambio con l’Europa. Anche se l’ultimo mandato di Lula è stato insolitamente anti-occidentale, dal Brasile non dobbiamo aspettarci grandi rotture con nessuno.
L’Argentina invece ha sempre oscillato nella sua politica estera a seconda delle preferenze politiche: i peronisti guardavano ai nemici dell’Occidente e gli anti-peronisti all’Occidente. Il problema è: che cosa è oggi l’Occidente? Ai tempi di Carlos Menem l’Occidente significava Reagan. Ma adesso?
Il liberista Milei, che prima abbraccia Zelensky e poi vota contro l’Ucraina all’ONU in ossequio al protezionista Trump, è l’emblema di questa confusione.
Quanto al Messico, ha legami intimi soprattutto con la Spagna (perché il Messico è stato la Nuova Spagna per secoli) e con la Francia (ritenuta un modello culturale). Ma è un paese ibridato con gli Stati Uniti su tutto, a cominciare da milioni di famiglie miste. Può avere grande simpatia per l’Europa, soprattutto sotto l’attuale amministrazione di Claudia Scheinbaum, ma rimane un paese il cui destino è legato agli Stati Uniti. Per questo le politiche di Trump non porteranno i risultati sperati. In generale, i paesi occidentali avrebbero interesse a rinsaldare i legami tra di loro.
A proposito della definizione di “paesi occidentali”. Dal Messico in giù, soprattutto sull’onda della retorica dei regimi del ‘900, si sono abituati a considerare l’Occidente (o il “nord globale”) come un’entità estranea e colonizzatrice. È ancora così?
Il vittimismo è lo sport più diffuso in America Latina. In un universo mentale e religioso come quello cattolico, passare per vittima, recitare la parte della vittima, può portare straordinari dividendi politici. La vittima, nell’immaginario morale cattolico, ottiene sempre consenso e simpatia.
Ora, questa idea dell’America Latina che combatte l’Occidente è una costruzione intellettuale prima cattolica e poi marxista. Loro lo chiamano “L’Occidente che domina la periferia latino-americana”, ma questo schema ideologico, se lo depuriamo da tutti gli orpelli, in realtà è l’eterna lotta dell’Europa cattolica contro l’Europa protestante. In realtà è una lotta intestina al mondo occidentale, al mondo europeo.
I fenomeni come Fidel Castro, Hugo Chavez e i peronisti, che hanno combattuto l’Occidente in nome dell’anti-imperialismo, stavano in realtà combattendo le innovazioni che in Occidente sono sorte dal mondo protestante e contro le quali continuavano a idealizzare i valori della matrice cattolica.
È l’antica Spagna imperiale che combatte l’eterno nemico, che in fondo è l’illuminismo. Sono fenomeni neo-ispanici che non hanno mai digerito l’illuminismo, accusato di aver corrotto il “popolo puro” dell’America Latina.
Molti di questi paesi però, quando si sono messi a fare gli illuministi o i capitalisti, se la sono cavata bene. Fino agli anni ’70 il Venezuela stava molto meglio della Spagna, l’Argentina era stabilmente tra i dieci paesi più ricchi del mondo, l’Uruguay e il Cile erano benestanti… insomma, non sono sempre stati vittime e sconfitti della storia: a lungo sono stati vincitori.
Nelle letture apocalittiche della storia quello che conta non è la realtà. Se si commisura la storia all’ideale del Regno di Dio in terra, le storie degli uomini saranno sempre fallimentari. La loro idea è che la storia è comunque degenerazione, lo sviluppo è comunque conflitto, ineguaglianza e peccato morale. Non a caso, questo tipo di movimenti anti-occidentali finisce spesso per teorizzare la santa povertà. L’uomo spiritualmente superiore per loro è quello che resiste ai danni del progreso. Non c’è, quindi, nessuna relazione diretta tra la crescita economica e la lettura ottimista o pessimista della storia. Nella loro visione della storia, la modernità è peccato: ha disgregato l’unità originaria e nulla potrà mai ricomporla.
I leader dell’opposizione al chavismo venezuelano, come Maria Corina Machado, si sono presentati come salvatori carismatici oppure come ripristinatori dell’illuminismo? Quale retorica hanno scelto?
La Machado è una figura carismatica, e non potrebbe essere altrimenti. In contesti di alta personalizzazione della politica, come il chavismo, è pressoché inevitabile che le opposizioni diventino qualcosa di eguale e contrario: devono trovare una figura altrettanto carismatica di riferimento e la Machado vi si presta molto.
Al tempo stesso, però, il suo è un carisma molto diverso da quello che abbiamo visto in Messico con López Obrador o in Argentina con Milei. La Machado si appella ai venezuelani in senso plurale. Qualora arrivasse al governo, cosa che peraltro mi auguro, non so cosa aspettarmi, ma mi sembra una figura più vincolata all’istituzionalità e più aperta al pluralismo che c’è nella società venezuelana. È una bella figura, decisamente.
Certo, si è affidata ad alleati che non sono sulla sua stessa lunghezza d’onda, come Trump e Milei. Ma dietro c’è una grande mancanza dei nostri paesi democratici: inibiti dall’immagine del chavismo come un movimento popolare e progressista (in linea col solito modo in cui l’Europa legge l’America Latina), non hanno avuto il coraggio di affrontarlo per quello che è.
I nostri paesi, in effetti, continuano a stare sul piedistallo e a immaginarsi i paesi dell’area Mercosur come le vecchie colonie povere, verso le quali qualunque passo che noi muoviamo è sempre un passo dei vecchi padroni che tornano a dare fastidio. Una lettura che non è più reale?
Forse non lo è mai stata.
A proposito dell’accordo di libero scambio: confrontando l’economia italiana con quelle del Brasile o del Messico, sembrano davvero i pezzi di un puzzle fatti per incastrarsi. Loro fanno tutto quello che serve a noi e noi facciamo tutto quello che serve a loro. Alla luce di questo, ascoltare gli argomenti contro l’accordo di libero scambio che vengono agitati in Italia è culturalmente interessante. Dicono: “Loro sono paesi poveri e noi, facendoci l’accordo, stiamo legittimando lo sfruttamento dei campesinos, il disboscamento dell’Amazzonia…”
Sono argomenti puramente ideologici che corrispondono a una rappresentazione dell’America Latina caricaturesca. Sa? Anche in Italia, come spesso in America Latina, le tendenze sovraniste e nazionaliste avvicinano spicchi di destra e di sinistra in maniera straordinaria: il loro problema è sempre quello del libero mercato. Quegli argomenti provengono da un mondo anti-capitalista e anti-moderno, oppure, soprattutto da destra, da un nazionalismo corporativo che sostiene, ad esempio, di proteggere i produttori rurali dalla competizione. In realtà in Italia siamo sempre stati molto protezionisti, e, come noi, finora lo sono stati anche i paesi del Mercosur.