Dazi sì, dazi no, dazi forse. A che punto sono i negoziati tra Taiwan e Stati Uniti?

Taiwan, epicentro globale della produzione di semiconduttori, si trova in una posizione alquanto delicata nei negoziati commerciali con gli Stati Uniti, mentre la Casa Bianca alterna annunci “muscolari” ad improvvise aperture.
I dazi imposti e successivamente sospesi dal presidente Donald Trump su una vasta gamma di beni d’importazione, inclusi quelli taiwanesi, hanno innescato una fase di incertezza che Taipei cerca ora di affrontare con cautela diplomatica ed un pacato ottimismo istituzionale. Insomma, Taiwan cerca di ostentare fiducia, definendo la situazione sotto controllo, ma l’incertezza sta decisamente regnando sovrana.
La questione dei dazi non è di certo nuova, ma assume oggi un peso strategico decisamente superiore. Taiwan esporta microchip, smartphone e dispositivi elettronici in quantità tali da essere ormai insostituibile nelle catene di fornitura globali, soprattutto statunitensi. Eppure, proprio mentre l’arcipelago asiatico pensava di poter rafforzare il partenariato con Washington, è arrivata la stangata. Dazi imposti al 32% sulle merci taiwanesi, dapprima annunciata e poi temporaneamente congelata.
Negoziati avviati, ma il percorso è ad ostacoli
I primi contatti ufficiali tra i due governi si sono svolti da poco in modalità virtuale. Nessun dettaglio è trapelato sui partecipanti o su di un’agenda temporale definita, ma secondo fonti governative taiwanesi si è discusso non solo dei dazi, ma anche di barriere non tariffarie, controlli sulle esportazioni e altre misure tecniche. La prudenza nelle comunicazioni è evidente. L’Office of Trade Negotiations di Taiwan conferma i colloqui, ma evita dichiarazioni trionfalistiche. Gli Stati Uniti, dal canto loro, restano silenziosi.
Regna il silenzio ma la presenza di Taiwan nella prima fase dei colloqui è stata interpretata da molti esperti come un segnale della centralità strategica dell’isola nel disegno commerciale e geopolitico americano. Il presidente taiwanese Lai Ching-te ha sottolineato con parole misurate l’importanza del confronto, esprimendo una “cauta soddisfazione” per il buon esito del primo round di negoziati.
Un modo, forse, per rassicurare l’opinione pubblica interna e i mercati, in un momento di potenziale turbolenza economica. Lai Ching-te sta provando a tenere saldo il timone dell’isola, ma i venti dei dazi dalle sponde americane soffiano davvero fortissimo.
Trump tra esenzioni ed escalation
A complicare poi ulteriormente la situazione è l’imprevedibilità delle politiche commerciali della Casa Bianca. Dopo aver imposto dazi generalizzati su molte categorie di prodotti provenienti da decine di Paesi, Trump ha poi annunciato una quasi parziale marcia indietro per alcuni settori, tra cui l’elettronica. Smartphone, semiconduttori e computer, inclusi quelli importati da Taiwan, sono stati recentemente esclusi dalla lista delle merci colpite, una decisione che riguarda circa il 64% del valore totale delle esportazioni taiwanesi verso gli USA.
Dietro questa scelta, secondo fonti della stampa americana, ci sarebbe la volontà di non compromettere l’approvvigionamento interno di componenti critici, in particolare chip e tecnologie sensibili. Non a caso, si parla già di un’indagine commerciale separata legata alla sicurezza nazionale sui semiconduttori, un’ulteriore incognita che potrebbe rimescolare ancora una volta le carte.
Come si sta muovendo Taipei
Nel frattempo, Taiwan si muove su più fronti. Da un lato ha presentato un piano di sostegno all’industria da 2,7 miliardi di dollari, destinato a ridurre i tassi di interesse sui prestiti, abbattere i costi amministrativi e prolungare le esenzioni fiscali per le aziende più colpite. Dall’altro invece, il governo punta ad aprire una nuova fase di cooperazione economica con gli Stati Uniti. L’idea, evocata più volte dal ministro degli Esteri Lin Chia-lung, è quella di costruire un’alleanza economico-industriale tra Taipei e Washington.
Un obiettivo ambizioso, che trova parziale riscontro nella proposta di aumentare gli acquisti di beni statunitensi da parte di Taiwan fino a 200 miliardi di dollari in dieci anni, con l’intento di riequilibrare la bilancia commerciale e rafforzare il legame bilaterale. Un’offerta significativa, ma che richiede ora una controparte americana chiara e coerente, cosa che al momento appare tutt’altro che scontata.
Cosa c’è da aspettarsi ora
L’impressione è che i colloqui siano entrati in una fase interlocutoria, in cui le parti sondano il terreno senza sbilanciarsi troppo. Taiwan non può permettersi strappi. La sua economia è fortemente integrata nei mercati globali e dipende in larga misura dalla stabilità dei rapporti commerciali. Ma neanche Washington può ignorare il ruolo strategico dell’isola, non solo sul piano tecnologico, ma anche in quello più ampio dell’Indo-Pacifico, dove si gioca una partita ben più complessa (vedi la Cina).
Trump intanto alterna toni aggressivi a concessioni improvvise e Taipei continua a muoversi con diplomazia e pragmatismo, nella speranza che, tra un dazio e l’altro emerga una linea condivisa tra i due paesi che permetta di raggiungere accordi fondamentali per entrambi i paesi e tenere lontana Pechino da eventuali mosse senza ritorno verso Taiwan.