Il fattore portoghese: ripensare il futuro globale dell’Europa dalle sponde dell’Atlantico

All’indomani della decisione del Presidente degli Stati Uniti di imporre dazi universali – anche nella terra dei pinguini – il presidente dell’Atlantikbrücke in Germania (letteralmente “ponte atlantico”), la più influente incarnazione istituzionale dell’amicizia transatlantica dal Dopoguerra, ha lanciato un accorato appello al prossimo governo tedesco. Non un idealista sfacciato, ma un esperto ex ministro degli Esteri, ha esortato Berlino a tendere la mano al Canada come potenziale nuovo membro dell’Unione Europea.
Quasi contemporaneamente in Austria, il Ministro dell’Economia – già direttore generale dell’equivalente locale di Confindustria – ha sostenuto pubblicamente l’accordo di libero scambio UE-Mercosur. Una posizione che, nonostante anni di accanita opposizione parlamentare, rischia ora di scontrarsi frontalmente con il suo collega di partito conservatore, il Ministro dell’Agricoltura, che rimane fermamente contrario all’importazione di prodotti agricoli dall’America Latina.
E in Italia? Per salvaguardare il secondo esportatore dell’UE verso gli Stati Uniti, il Ministro dell’Economia e delle Finanze ha consigliato all’industria di adottare una non meglio specificata posizione “attendista”. Nel frattempo, alla vigilia di un voto cruciale del Parlamento europeo per rispondere all’ondata di dazi imposti da Washington, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni evoca l’intenzione dell’Italia di porsi come ponte tra gli Stati Uniti e l’Europa, quasi a giustificare la necessità di un dialogo bilaterale diretto tra l’Italia, membro fondatore dell’UE, e gli Stati Uniti in un momento in cui l’Unione dovrebbe mostrarsi il più compatta possibile.
Da questa improvvisa cacofonia tra tre Paesi che fino a poco tempo fa erano ampiamente allineati in politica estera, emerge un quadro preoccupante: come può l’Europa reagire con forza e unità al colpo devastante inferto da Washington il 2 aprile 2025? È chiaro a tutti che lasciare che ogni Stato membro improvvisi il proprio colpo difficilmente impressionerà l’uomo che oggi appare saldamente al comando, l’artefice del più drammatico crollo dei mercati globali dal lunedì nero del 1987.
Tuttavia, forse è rassicurante ricordare che nei suoi momenti più bui, l’Unione ha spesso trasformato le crisi in opportunità, emergendo più forte e sorprendendo ripetutamente il mondo. Si pensi alla crisi finanziaria del 2008, alla crisi dell’euro del 2011, alla crisi migratoria iniziata nel 2015, alla Brexit, alla pandemia e infine alla guerra tra Russia e Ucraina.
Questa volta, però, con una sorta di “Brexit degli Stati Uniti” – un allontanamento dai valori che un tempo erano alla base del sistema di democrazie liberali occidentali impegnate nel libero scambio globale – il contesto è radicalmente diverso. Potrebbe essere giunto il momento di rivedere i libri di storia sull’evoluzione dell’Europa nel corso dei secoli per acquisire una prospettiva.

Quando l’Europa parlava all’Oriente in portoghese
Nel XV e XVI secolo, ben prima di altri imperi europei, i portoghesi avevano già stabilito rotte stabili verso l’India, la Cina, il Giappone e l’Africa subsahariana. Macao, colonia portoghese fino al 1999, è stata per secoli il ponte tra Europa e Asia – una Via della Seta avant la lettre. Questa capacità di dialogare tra civiltà, mantenendo un delicato equilibrio tra commercio e diplomazia, è insita nel DNA storico del Portogallo. Non è esagerato dire che dal Portogallo, Rio de Janeiro e San Paolo – come Luanda e Macao – sembrano culturalmente più vicine di Berlino, Vienna, Roma o Parigi.
E oggi, quell’eredità diplomatica può trovare una rinascita politica, proprio in un momento in cui l’Europa ha bisogno di leader capaci di parlare con Pechino o Nuova Delhi non da una posizione di subordinazione, ma da pari a pari, consapevoli di una storia condivisa.
Se, del tutto inaspettatamente, una delle più alte cariche europee – la presidenza del Consiglio europeo – è ora ricoperta da un cittadino portoghese con radici extraeuropee, forse questo segna un punto di svolta nella trasformazione della nostra attuale crisi in opportunità.
Un europeo nato in India
Al centro di questa possibilità si trova una figura simbolica, un emblema vivente della complessità globale: António Costa, ex primo ministro portoghese per otto anni, un uomo di origini indo-mozambicane, nato a Goa – ex colonia portoghese in India – figlio di un intellettuale, cresciuto nel Portogallo democratico post-Salazar, ed educato a navigare tra i mondi. Insomma, un vero cittadino del mondo, sospeso tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud, al quale il Primo Ministro indiano – a suggello della lunga amicizia tra Portogallo e India – ha concesso un permesso di soggiorno e di lavoro a vita.
Al di là del simbolismo della sua posizione, è questa biografia unica, unita al suo ruolo istituzionale, che potrebbe fungere da forza guida che attualmente manca in Europa: con visione storica, sensibilità transnazionale e, sì, memoria imperiale – non come fantasia nostalgica, ma come capitale politico da interpretare e applicare alle sfide di oggi.
Una bussola portoghese per l’Europa
Inoltre, il Portogallo stesso – geograficamente il Paese dell’UE più vicino sia agli Stati Uniti che all’America Latina – può svolgere un ruolo cruciale. Grazie alle sue reti linguistiche e internazionali con il Brasile, i Paesi africani lusofoni ( PALOP), Timor Est e Macao – relazioni accuratamente coltivate da Costa durante il suo lungo mandato – il Portogallo può fungere da cerniera tra l’Europa e l’Indo-Pacifico, rafforzando anziché indebolire l’ambizione franco-tedesca, sempre più messa in discussione dall’instabilità interna.
Avere un leader portoghese alla guida del Consiglio europeo nel 2025 è quindi molto più di un avvicendamento geografico. È un’opportunità concreta per rilanciare una politica estera europea autonoma, multipolare e culturalmente fluente, una politica che non rifugge dalle complessità del mondo, ma le abbraccia con intelligenza storica.
L’attuale Presidente del Consiglio europeo, forse prima di molti dei suoi 27 colleghi, ha capito che l’Europa non poteva più affidare il suo destino a un “ponte atlantico” robusto ma in fondo fragile – tanto più che, come ha ammesso una volta in un’intervista, è rimasto profondamente scosso nell’ascoltare a Davos un discorso del Presidente cinese che, solo pochi anni prima, avrebbe potuto essere pronunciato da un Presidente americano – e viceversa.
Come il Portogallo di mezzo millennio fa, António Costa, a prescindere dalle sue origini indiane, in qualità di primo ministro ha dedicato notevoli sforzi alla promozione dei legami con la Cina – non da una posizione di inferiorità, ma come attore strategico capace e sicuro di sé. Sembra che Costa sia riuscito ad aprire il Paese a massicci investimenti cinesi all’indomani della crisi finanziaria del 2013 – una crisi che ha visto anche l’intervento della tanto evocata “troika” di Bruxelles – e, cosa ancora più importante, sia riuscito a pretendere dalla Cina il rispetto del “level playing field” europeo in termini economici e sociali, anche quando è diventata la quarta fonte di investimenti diretti esteri del Portogallo.
Quale momento migliore di questo per l’UE di essere guidata da un esperto statista – un cittadino globale abile nel trattare con Pechino, l’arte più apprezzata dall’attuale Presidente degli Stati Uniti? Soprattutto vista l’irrazionale ostilità che il principale cliente dell’America mostra nei confronti della Cina, è nell’interesse di tutti rafforzare i legami con l’UE, il suo secondo partner commerciale. L’UE ha bisogno di un abile costruttore di ponti, un uomo ricco di tradizione diplomatica che proviene da un’epoca in cui il suo Paese esercitava un potere globale paragonabile, o addirittura superiore, a quello dell’UE di oggi.
Che piaccia o no, in un’epoca stretta tra gli imprevedibili presidenti americani e russi, l’Unione Europea – in quanto potenza economica mondiale – ha da guadagnare dall’approfondimento delle relazioni con Paesi che solo pochi anni fa erano etichettati come “potenze emergenti” e che ora sono a pieno titolo protagonisti del mondo che verrà: India e soprattutto Cina. Del resto, quale migliore garanzia contro le ambizioni espansionistiche russe di una Cina che non vorrebbe vedere indebolito il suo secondo partner commerciale?

In un’epoca di muri, tariffe e sfiducia, l’Europa ha bisogno di ponti e costruttori di ponti
Un europeo nato in India, figlio della storia lusofona e della cultura globale, può oggi ridefinire il posto dell’Europa nel mondo. Chi meglio di lui può unire le forze con il Presidente della Commissione europea e l’Alto rappresentante per dare spessore e direzione al ponte transatlantico un tempo immaginato dall’Atlantikbrücke tedesco – una visione che, sebbene nobile, non è più sufficiente?
Diventa chiaro, quindi, che enfatizzare il fattore portoghese non è un esercizio folcloristico. Al contrario, è un’opportunità storica per ripensare la postura dell’Europa, meno difensiva e più proattiva. E infine – forse – strategica. Con tutto il rispetto per l’Italia e per la visione del suo capo di governo, piuttosto che aspirare implausibilmente a fare da ponte euro-atlantico, il nostro Paese farebbe meglio a concentrarsi sul ruolo che la geografia gli assegna più opportunamente: quello di mediatore euromediterraneo. L’Italia dovrebbe sforzarsi di coltivare relazioni forti – anche a beneficio dell’Unione Europea – con i Paesi verso i quali la Sicilia è naturalmente orientata. Anche solo riuscire in questa impresa enormemente complessa sarebbe un risultato notevole, di cui l’intera Unione Europea – e l’Italia in particolare – potrebbero essere giustamente orgogliosi.