Poveri Canfora e Barbero. Li capisco

Nei Promessi Sposi c’è un personaggio verso il quale provo una solidarietà particolare: don Ferrante, l’erudito milanese che per qualche tempo ospita Lucia prima dell’arrivo della peste.
Padrone di una ricca biblioteca e versato nelle scienze naturali (come le intendevano prima di Galileo), quando scoppia l’epidemia don Ferrante non si scompone: grazie ai suoi sillogismi aristotelici ha dimostrato inconfutabilmente che il contagio non può esistere, in quanto “non può essere sostanza e non può essere accidente”.
Alla fine, ovviamente, la peste lo uccide e la sua biblioteca finisce “dispersa su per i muriccioli”.
Don Ferrante è un tipo umano nel quale ci imbattiamo molto spesso: l’uomo colto che però, senza rendersene conto, si è acculturato all’interno di un solo schema di lettura della realtà.
Appena la realtà scarta di lato ed esce da quello schema, la sua cultura diventa una gabbia mentale che gli impedisce di capirla.
E tanto più sono stati profondi i suoi studi nel passato, tanto più sarà profonda la sua cecità di fronte al presente.
Ora, la mia impressione è che la generazione degli intellettuali come Canfora e Cacciari, insieme a quella dei loro emuli portata alla ribalta da Barbero, stia vivendo da qualche tempo il suo “momento don Ferrante”.
Non quando si confronta con batteri e malattie, ma quando si confronta con gli epocali cambiamenti storici ai quali le due invasioni dell’Ucraina sono state la brutale reazione.
Se questi eruditi sposano supinamente la narrazione di Putin sulla guerra, sparando castronerie tali da far impallidire quelle di don Ferrante sull’inesistenza della peste, non è perché ammirino il regime del Cremlino, né perché rimpiangano il comunismo sovietico (come spesso viene insinuato con un certo semplicismo).
È, invece, perché sono spiazzati da un evento storico che ha mandato in frantumi tutti i loro sillogismi e che sfugge ai loro schemi culturali: l’ascesa silenziosa dell’Unione Europea come potenza continentale e, in prospettiva, mondiale.
La novità europea
L’Unione Europea, pur avendo mille limiti, ha creato qualcosa di oggettivamente innovativo.
Per la prima volta, esiste una potenza che si espande per libera scelta dei paesi che scelgono di entrarvi, e tuttavia riesce a prendere alcune grandi decisioni valide per tutti coloro che ne fanno parte, proprio come avveniva negli antichi imperi sorti dalla conquista armata.
L’Unione ha attirato a sé i paesi dell’Europa centrale negli anni ’90, ha iniziato ad attirare quelli dell’Europa orientale negli anni 2000, e adesso attira persino quelli dell’Artico, semplicemente esistendo.
Nessuna potenza imperialista tradizionale può stare al passo con una cosa del genere.
Pensiamo a Putin: con tutte le sue guerre sanguinose, non è ancora riuscito ad assorbire del tutto nemmeno la Bielorussia di Lukashenko.
Pensiamo a Trump, che, se volesse fare del Canada il suo “cinquantunesimo stato”, dovrebbe affrontare un conflitto lungo, costoso e impopolare: visto il recente fallimento nell’occupare l’Afghanistan, mi azzarderei a dire impossibile.
Pensiamo a quanto si sia indebolito nel tempo il Commonwealth britannico – il che contribuisce a spiegare il diffuso pentimento per la Brexit.
Pensiamo alla galassia di alleati fanatici e rissosi a cui Erdogan deve affidarsi per restaurare l’egemonia sull’ex Impero ottomano.
In un quadro del genere, la trafila burocratica dei “compiti a casa” su mercato e trasparenza con cui si entra nell’UE appare, nel suo grigiore, quasi geniale.
E se anche, qua e là per l’Europa, i Georgescu di turno si facessero più furbi, smettessero di delinquere prima delle elezioni, riuscissero a candidarsi, vincessero e staccassero uno alla volta i loro stati dall’Unione per portarli nell’orbita russa, non avrebbero mai con la Russia lo stesso livello di integrazione economica e di condivisione del potere che oggi hanno nell’UE.
Non gli basterebbero decenni per arrivarci.
Popoli attratti, regimi spaventati
Del resto, per smascherare la retorica dei populisti interni all’Unione, basta ascoltare quella dei populisti esterni.
I popoli circostanti sanno benissimo che entrando godrebbero di più protezione, di più prosperità e di più libertà, e dunque i vassalli locali di Putin, come Janukovich in Ucraina, Vucic in Serbia e Ivanishvili in Georgia, non hanno mai messo apertamente in discussione il desiderio di entrare.
Quando Janukovich mostrò la sua vera natura e stracciò l’accordo di partenariato con Bruxelles per firmarne uno con Mosca, scese in piazza per cacciarlo una folla 30 volte più numerosa di quella che prese il Palazzo d’Inverno e 160 volte più numerosa di quella che prese la Bastiglia.
Putin reagì invadendo la Crimea e il Donbass, e si giustificò con il timore di un avanzamento della NATO.
Ma dieci anni dopo la Finlandia è entrata nella NATO, e Putin non ha mosso un dito.
Evidentemente il problema era un altro avanzamento: quello della democrazia liberale.
Il problema era la trasformazione del vecchio spazio sovietico nel nuovo spazio europeo, che ormai si poteva impedire solo con le cannonate.
“Grigi burocrati” o pericolosi “fascisti”? Il cortocircuito della propaganda
Insomma, non ci giriamo intorno: la riunificazione degli europei sotto la corona di stelle è un progetto geopolitico che per facilità, efficacia e accettabilità annichilisce qualunque progetto rivale, dalla “Eurasia” putiniana in giù.
Per i vecchi imperi, questa creatura aliena del 21° secolo è un vero e proprio incubo.
A parole la ridicolizzano, parlando di “Europa dei burocrati” o di “Europa che non conta nulla”, ma nei fatti fanno di tutto per disintegrarla o se non altro per contenerla.
In questo si mostrano più lucidi di don Ferrante: “Il contagio non esiste, d’accordo, ma per scaramanzia affrontiamolo comunque”.
La recente vignetta del capo dei servizi segreti russi è rivelatrice. Dice: “L’Eurofascismo è il nemico comune degli USA e della Russia come ottant’anni fa”.
Niente male per un covo di burocrati che non conta nulla.

Ebbene, un mal di testa analogo deve star cogliendo anche i Canfora e i Barbero.
Per loro, che si sono formati nel secolo scorso, in un clima accademico modellato dal marxismo, la storia ha un set di regole sempre uguali che determinano i suoi movimenti.
Un esperto della Guerra del Peloponneso può pontificare con scioltezza sulla guerra fredda o sulla guerra in Ucraina, perché tanto gli imperialismi si assomigliano tutti, gli interessi economici dietro le guerre si assomigliano tutti, gli ideali politici e le credenze religiose sono sempre “solo cause apparenti” e mai “cause remote” dei conflitti, e via dicendo.
Un conoscitore della storia del ‘900 può giocare a trovare corrispondenze tra Merz e Hitler, o tra la Von der Leyen e il kaiser Guglielmo, senza sentirsi ridicolo.
Questo labirinto di corsi e ricorsi, di strutture e sovrastrutture, di historia magistra vitae, ha due vantaggi: permette agli storici di giustificare il proprio stesso mestiere contro le (stupide) accuse di inutilità, e permette loro di trasformarsi in guru di Youtube o in cartomanti televisivi, che divinano nell’oscurità del passato i segreti arcani per spiegare il futuro.
Ma la storia europea degli ultimi trent’anni, dove ogni singolo popolo del centro o dell’Est ha tentato spontaneamente di legarsi ai “burocrati di Bruxelles”, fino al momento in cui la Russia ha reagito con la forza, ha fallito, ha cercato sponda nel disimpegno degli USA e ha ottenuto come unico risultato di costringere i “burocrati di Bruxelles” a diventare una potenza militare indipendente, è un rompicapo inspiegabile per chi usa ancora gli schemi di Tucidide o di Marx.
“Non può essere sostanza, non può essere accidente…”
Dunque, per i nostri amati professori e divulgatori, è una necessità intima e psicologica che l’Europa resti debole, che lasci alla Russia le sue province imperiali anche contro la volontà di chi ci vive, che non riempia il vuoto di potere lasciato dagli USA, e così via. Ne va della sopravvivenza delle categorie storiografiche con cui sono cresciuti.
Aggiungiamo il comprensibile fastidio che può provare un guru di Youtube, abituato a decantare le imprese guerresche di Carlomagno o di Gengis Khan, nel vedere una grande potenza che sorge col sorriso sbarazzino di Kaja Kallas, con il placido eloquio di Mario Draghi, con la maglietta sudata di Zelensky e con i balli in discoteca di Sanna Marin.
Vero è che Carlomagno dava festini alle terme con mille invitati (altro che Sanna Marin) e che Gengis Khan non scendeva mai da cavallo per ribadire il suo ruolo di capo militare (altro che Zelensky).
Ma si sa, gli aneddoti biografici non sono mai stati importanti per chi era concentrato a scrutare le viscere delle “sfere d’influenza” o delle “lotte di classe”.
Li capisco, i Canfora e i Barbero.
Ma, proprio perché li capisco, li invito ad adeguarsi alla nuova realtà.
Altrimenti la loro erudizione rischia di fare la fine dei libri di don Ferrante, dimenticati nell’euforia della città scampata alla peste.