Cari europeisti, questa Europa sfiduciata non è la nostra
Il vecchio “europeismo” e il vecchio “sovranismo” hanno in comune la paura del rischio e la convinzione che gli europei non abbiano più niente da dare all’umanità. Si sbagliano.
Per anni, la retorica degli “europeisti” (tra i quali mi metto anch’io) ha esaltato le straordinarie possibilità che i paesi della vecchia Europa avrebbero avuto se si fossero uniti sotto un unico governo federale.
Anche quelli che erano più tiepidi sugli “Stati Uniti d’Europa” agitavano comunque una contrapposizione tra l’arretratezza delle leggi italiane e le opportunità che invece offriva il diritto europeo, al quale l’Italia era rimasta impermeabile preferendo una stizzosa chiusura.
Queste speranze avevano, forse, raggiunto il culmine durante la pandemia, quando l’obbligo di far circolare liberamente il materiale sanitario, l’acquisto collettivo dei vaccini e il grande piano di “ripresa e resilienza” avevano mostrato che cosa un’Europa unita fosse capace di fare, purché lo volesse, in situazioni di grave crisi.
Ebbene, dobbiamo ammettere che negli anni successivi al 2021 tutto è cambiato. Quella retorica è stata superata dagli eventi e ad oggi, a conti fatti, è da buttare.
Che cosa è accaduto in soli tre anni di così sconvolgente?
Semplice: alla luce della gestione imbarazzante che l’Europa ha fatto della questione ambientale, della guerra in Ucraina e dell’avvento dell’intelligenza artificiale, ci siamo resi conto che l’intero continente è molto più “italiano” di quanto pensassimo.
Ci siamo accorti che la cautela paranoica, la passività, la paura del nuovo, l’ansia di protezione e il senso di colpa verso la grandezza di un tempo sono i sentimenti dominanti in quasi tutta l’élite europea, compresa quella che siede nei palazzi del potere nazionali.
La crisi del coraggio europeo
Sentimenti del genere non possono ispirare scelte né coraggiose né lungimiranti. Ed ecco, quindi, che sono arrivati in sequenza: il blocco delle fusioni per far nascere grandi corporation europee, il GDPR che ha affossato la ricerca nel campo della data science, il Digital Services Act che ci ha espulsi dalla corsa all’intelligenza artificiale, le politiche ecologiche utopistiche che hanno messo in crisi interi comparti dell’industria, la capitolazione ai cortei dei “trattori” che ha stroncato l’innovazione in agricoltura. Può sembrare assurdo, ma non c’è un singolo settore dell’economia nel quale l’Europa non si sia data una zappa sui piedi.
Se domani, quindi, potessero nascere con un colpo di bacchetta magica gli “Stati Uniti d’Europa”, somiglierebbero ben poco agli Stati Uniti d’America.
Verrebbe “federalizzato” un goffo controllo sull’economia dettato dal terrore del rischio.
Verrebbero “federalizzati” il disimpegno in politica estera, il timore di riattivare l’industria bellica e l’accondiscendenza verso la Russia che abbiamo tristemente sperimentato negli ultimi vent’anni.
Verrebbe “federalizzata” la castrazione sistematica di qualsiasi istinto vitale, virile, avventuriero, esploratore dell’ignoto e riparatore delle ingiustizie, ovvero di ciò che in passato ha reso grandi le civiltà europee e, attraverso di esse, ha permesso di migliorare tangibilmente l’esistenza della maggior parte degli esseri umani.
Il welfare e le sue basi traballanti
Intendiamoci, in sé il welfare non ha niente di male: da “europeista” della vecchia scuola auspicavo spesso che i miei figli potessero godere anche in Italia di servizi per l’infanzia come quelli che si hanno nei paesi nordici. Il problema è su quali basi poggia il nostro welfare.
Se una società intraprendente, dinamica, fiera di avere una missione storica, libera di creare e di diffondere nel mondo le sue creazioni, decide poi di destinare una parte del valore aggiunto che ha creato alla spesa sociale, è cosa naturale e lodevole.
Ma se una società immobile e impaurita, che non produce più letteralmente nulla di nuovo né di interessante per il resto del mondo, pretende poi di mantenere una spesa sociale enorme e per giunta se ne vanta guardando gli altri con spocchia dall’alto in basso (vedi le leggende da bar sugli americani che “devono strisciare la carta di credito per curarsi in ospedale”), allora il welfare si trasforma in un privilegio parassitario, e si fa più fatica ad esserne orgogliosi.
La difficoltà (reale) di molti paesi, tra cui il nostro, ad alzare gli investimenti in sicurezza militare dopo la grande invasione dell’Ucraina, ci dice quanto l’assuefazione all’assistenza sociale abbia reso milioni di cittadini europei più deboli e più ricattabili, e quanto sia insensato ridicolizzare quegli americani che di fatto, pagando di tasca loro per la nostra sicurezza, ci permettono di tenere in piedi il nostro welfare.
L’Europa che sogniamo
Dunque, la vecchia mitologia eurofila e federalista va abbandonata, e in fretta. La somma di tante debolezze non genera la forza.
Finché l’Europa rimane un continente sfiduciato, che non crede più nelle potenzialità dell’uomo e del suo libero arbitrio e chiede alla politica controllo sociale, tutela dell’esistente e in qualche caso penitenza ecologica, il suo declino sarà inarrestabile.
Solo quando si sarà trasformata in una grande Estonia, in una grande Polonia o – scandalo a dirsi! – in una grande Israele, potrà ritrovare la sicurezza, il benessere e soprattutto l’orgoglio di un tempo.
Come fare? Il dibattito è aperto.