Così le autostrade (digitali) uccidono l’automobile: una crisi filosofica
La crisi che il settore automobilistico sta attraversando non si limita alla transizione energetica verso l’elettrico o alla crescente attenzione per il cambiamento climatico. Essa rappresenta un segno di un mutamento più profondo, un passaggio epocale che coinvolge priorità culturali, sociali e filosofiche. L’automobile, simbolo della modernità novecentesca, perde centralità in una società che non si definisce più attraverso il movimento fisico, ma attraverso la connessione digitale.
Per gran parte del secolo scorso, l’automobile è stata il mezzo attraverso cui si è raccontato il progresso: un oggetto che incarnava libertà individuale, conquista dello spazio e potere sull’ambiente circostante. Oggi, però, il valore del movimento sembra essersi trasferito su un piano diverso: quello immateriale, fatto di informazioni che viaggiano senza richiedere spostamenti fisici. L’individuo moderno non deve più muoversi per lavorare, comunicare o accedere alla cultura; è il mondo che si muove verso di lui, grazie alla digitalizzazione.
Dalla mobilità fisica alla mobilità digitale
Lo smart working è l’esempio più evidente di questa rivoluzione. Durante la pandemia, milioni di lavoratori hanno scoperto la possibilità di svolgere le proprie attività senza lasciare le proprie abitazioni. Questo cambiamento ha avuto un impatto significativo sui modelli di mobilità: meno traffico, meno necessità di veicoli, meno centralità dell’automobile nella vita quotidiana. Secondo i dati di ISFORT, nel 2020 i chilometri percorsi giornalmente dagli italiani sono calati del 37%. Un dato che non può essere spiegato solo da contingenze temporanee, ma che rivela una trasformazione più profonda.
Anche la fruizione culturale riflette questa svolta epocale. Dove una volta ci si spostava per visitare un museo, assistere a uno spettacolo teatrale o sfogliare un libro in libreria, oggi bastano pochi clic per accedere a mostre virtuali, film in streaming o interi cataloghi di opere letterarie. La cultura non si consuma più attraverso il viaggio, ma attraverso la connessione, rendendo marginali le infrastrutture fisiche a favore di quelle digitali.
Un cambiamento filosofico
La crisi dell’automobile, dunque, non è solo economica o tecnologica, ma profondamente filosofica. Essa riflette un cambiamento nella concezione stessa della libertà e del progresso. Per decenni, libertà ha significato la possibilità di muoversi ovunque, mentre oggi sembra significare la possibilità di essere presenti ovunque, senza muoversi. Il passaggio da un paradigma basato sulla mobilità fisica a uno centrato sulla connessione digitale ridisegna i contorni della nostra epoca, mettendo in discussione valori e simboli che sembravano inamovibili.
In questo contesto, l’automobile si trova a incarnare un passato che non riesce più a dialogare con il presente. La transizione verso l’elettrico, pur necessaria, non è sufficiente a restituirle la centralità che aveva. Perché ciò che si sta trasformando non è solo il mezzo, ma il fine stesso del movimento: non più conquista dello spazio, ma gestione dell’informazione.
La crisi dell’automobile non è altro che il riflesso di un mondo in cui il movimento fisico ha perso il primato. Viviamo in un’epoca in cui la velocità non si misura più in chilometri, ma in megabit, e in cui la libertà non consiste nel potersi spostare, ma nel poter essere connessi. È un cambiamento che ridisegna il nostro rapporto con il tempo, lo spazio e la modernità stessa, segnando il tramonto di un simbolo e l’alba di un nuovo paradigma.