Diaspora iraniana: No al ricatto di Teheran per liberare Sala

Ashkan Rostami, Consiglio di Transizione dell’Iran
30/12/2024
Frontiere

L’arresto della giornalista italiana Cecilia Sala in Iran e la sua detenzione nel famigerato carcere di Evin, simbolo della repressione politica della Repubblica Islamica, ha riportato l’attenzione sulla pratica della “diplomazia degli ostaggi“, una strategia consolidata del regime di Teheran.

Questo episodio non ha solo suscitato indignazione, ma ha anche sollevato interrogativi cruciali: anzitutto, quanto è opportuno per i giornalisti stranieri operare in Iran? Quali strategie possono adottare i governi occidentali per contrastare efficacemente una politica che sfrutta gli individui come strumenti di pressione? Infine, che atteggiamento avere nei confronti del regime degli ayatollah in una vicenda del genere?

La “diplomazia degli ostaggi” nella Repubblica Islamica

La Repubblica Islamica utilizza da decenni l’arresto arbitrario di cittadini stranieri come leva politica. Questa strategia risale alla crisi degli ostaggi del 1979 e si è evoluta nel tempo. Secondo un rapporto del Center for Human Rights in Iran, negli ultimi anni sono stati arrestati almeno 22 cittadini occidentali, spesso usati come pedine per ottenere concessioni economiche o politiche.

Il trattamento riservato a Cecilia Sala, dunque, è routine per Teheran. Nel caso di specie, la temporalità del suo arresto pare essere legata alla recente detenzione in Italia di Mohammad Abedini Najafabadi, accusato di legami con il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche e sul quale pende una richiesta di estradizione negli Stati Uniti. Non ci sono conferme ufficiali del legame tra le due situazioni, e non ce ne saranno, ma è ormai palese persino dalle comunicazioni della Farnesina che Teheran cerca uno scambio.

La vicenda richiama alla memoria il caso di Kylie Moore-Gilbert, un’accademica australiana detenuta per 804 giorni in Iran con accuse pretestuose di spionaggio. Anche in quel caso, il rilascio è avvenuto solo in seguito a uno scambio di prigionieri, con l’Iran che ha ottenuto il ritorno di tre cittadini accusati di terrorismo in Thailandia. Questo dimostra come il regime sfrutti sistematicamente gli arresti di cittadini stranieri per ottenere vantaggi politici o strategici.

Le critiche alla scelta di viaggiare in Iran

L’arresto di Cecilia Sala ha scatenato un dibattito all’interno della diaspora iraniana e tra gli osservatori internazionali. Da un lato, molti hanno sottolineato l’imprudenza della decisione di recarsi in Iran, un Paese dove il rischio per i giornalisti stranieri è ampiamente documentato. Numerosi attivisti iraniani avevano già messo in guardia contro i pericoli derivanti dall’essere usati come strumenti politici dal regime. L’esperienza della scrittrice iraniano-britannica Nazanin Zaghari-Ratcliffe, arrestata nel 2016 senza alcuna prova concreta, testimonia quanto sia frequente il ricorso a queste tattiche.

Dall’altro lato, sempre nel mondo della diaspora iraniana, è stata sollevata una questione di opportunità professionale: alcuni critici ritengono che Sala non fosse in Iran per denunciare le violazioni dei diritti umani, ma per raccontare un’immagine del Paese più positiva rispetto alla realtà, in qualche modo legittimando o comunque non delegittimando la propaganda governativa. Altri casi, come quello del giornalista canadese Maziar Bahari, mostrano come il regime cerchi di influenzare il modo in cui i media stranieri raccontano la realtà iraniana.

Il trattamento riservato agli stranieri, inoltre, differisce notevolmente rispetto a quello imposto ai prigionieri politici iraniani. Mentre questi ultimi subiscono spesso torture, negazione di cure mediche e condizioni disumane, i detenuti stranieri vengono trattati in modo migliore per il loro valore strategico. Questo ha portato alcuni a suggerire che, accettando tali rischi, i giornalisti stranieri contribuiscano indirettamente a rafforzare il sistema repressivo del regime.


Quale strategia dovrebbe adottare il governo italiano?

Il governo italiano deve affrontare questa situazione con una strategia pragmatica e ben calibrata, evitando decisioni emotive che potrebbero portare a una capitolazione alle condizioni poste implicitamente da Teheran. La priorità per il regime iraniano è avviare un confronto negoziale rapido, anche per sfruttare l’emotività dell’opinione pubblica italiana. Il governo italiano non dovrebbe cadere nella trappola della fretta: la “trattativa” va complicata e non semplificata. Occorre mettere sul piatto altri costi e svantaggi per Teheran. Bisogna cioè aumentare il costo politico e diplomatico per il regime, creando un quadro in cui il ricatto diventi controproducente.

Coinvolgere partner europei e internazionali per aumentare la pressione sul regime attraverso sanzioni mirate e misure di isolamento potrebbe essere un primo passo. Isolare Teheran da tutti i suoi potenziali interlocutori regionali, sostenendo al contempo i suoi avversari. Potrebbero passare mesi, forse anni: capiamo quanto questo appaia crudele per la vicenda umana di Cecilia Sala, ma cedere al ricatto del regime di Teheran aprirebbe la strada a futuri episodi analoghi. Il prezzo da pagare non riguarderebbe più solo i giornalisti, ma anche imprenditori, lavoratori, operatori sociali e qualunque cittadino italiano si trovi a operare in Iran. Ogni concessione rafforzerebbe il regime e renderebbe tutti i cittadini occidentali, ovunque si trovino, potenziali bersagli di simili politiche.


Un punto di svolta per i giornalisti occidentali

L’arresto di Cecilia Sala deve segnare un cambiamento radicale nell’approccio dei giornalisti italiani, europei e occidentali verso l’Iran. Da oggi in poi, non si può più considerare l’Iran un luogo frequentabile o visitabile per ragioni professionali. I rischi non sono più accettabili, e il regime ha dimostrato di vedere nei reporter stranieri strumenti per i propri scopi politici e propagandistici.

L’Iran non è solo uno Stato autoritario, ma uno dei principali attori del fronte avversario nel contesto geopolitico globale. La sua politica repressiva, il sostegno a gruppi estremisti e la destabilizzazione sistematica della regione sono segnali inequivocabili di un confronto diretto con l’Occidente. Serve davvero altro per capire che siamo in guerra?