I giovani serbi ce l’hanno con l’Europa, ma non per il motivo che pensate

Da cinque mesi, la Serbia è scossa da proteste oceaniche che hanno portato in piazza fino a un milione di persone.
Tuttavia, a differenza di quanto sta accadendo in Georgia, Moldavia, Romania, Ungheria e Slovacchia (e di quanto è accaduto tempo fa in Ucraina e Bielorussia), in quei cortei non vengono sventolate le bandiere europee come simbolo di libertà e di trasparenza.
Questa assenza non è casuale, ma riflette una disillusione profonda dei giovani serbi nei confronti dell’Unione Europea.
Un sentimento che non deriva da improbabili nostalgie di Milosevic e delle sue scorrerie genocide in metà dei Balcani (avvenute quando gran parte dei manifestanti non era neanche nata), ma, al contrario, proprio dalla percezione che l’UE in questo momento non stia facendo abbastanza per promuovere in Serbia i valori di cui altrove si riempie la bocca.
Secondo molti, anzi, Bruxelles sta fornendo un ambiguo sostegno al governo semidittatoriale di Aleksandar Vučić.
Il motivo di questa impressione diffusa è duplice.
Da un lato, c’è la questione di un enorme giacimento di litio situato nella valle di Jadar. Questo giacimento, se sfruttato, potrebbe soddisfare il 90% del fabbisogno continentale di un minerale che è essenziale per le batterie dei dispositivi digitali e per le tecnologie green.
L’apertura della miniera, che andrebbe in concessione alla corporation britannico-australiana Rio Tinto, è però vista dalle comunità locali e dalle giovani generazioni come un disastro ambientale inaccettabile.
Dall’altro lato, l’UE sembra star giocando con Vučić una partita strategica sul lungo periodo.
Il presidente serbo, per motivi ideologici, è un solido alleato sia del regime russo che di quello cinese. L’UE si sarebbe adeguata a questa realtà e avrebbe scelto una strategia di lento logoramento: rendere la Serbia del tutto dipendente dall’Europa, non solo sul piano dei commerci ma anche su quelli della difesa, dell’industria e altri settori vitali, in modo da sganciarla gradualmente dall’alleanza con Mosca e con Pechino.
Le richieste dei manifestanti
Le proteste degli ultimi mesi hanno visto scendere in piazza, secondo alcune stime, circa un sesto della popolazione adulta della Serbia. Le richieste avanzate erano chiare:
1) dimissioni di Vučić e nuove elezioni trasparenti;
2) riforme contro la corruzione, che ha portato a tragedie come la strage avvenuta a novembre per il crollo della pensilina di Novi Sad;
3) il ritiro del progetto per l’apertura della miniera di litio.
Dietro queste richieste c’è una sfiducia radicata verso un governo percepito come corrotto e autoritario, ma c’è anche una critica alla complicità, reale o percepita, dell’Unione Europea.
Per i valori europei, la situazione serba rappresenta un dilemma spinoso.
Per cominciare, i giovani serbi hanno ragione o no a protestare contro la miniera?
È giusto che l’Europa continui a servirsi di minerali provenienti da cave situate solo nei paesi poveri degli altri continenti, scaricando su di essi tutta la devastazione ambientale?
“No, è ingiusto”, si dirà. Ma, in questo caso, sarebbe credibile appoggiare la lotta contro Vučić e contro la corruzione, imponendo però comunque l’apertura della miniera e alienandosi così le simpatie di una parte consistente dell’opposizione serba?
E se invece l’Europa, per retorica o per calcolo politico, appoggiasse tutte e tre le richieste dei manifestanti?
Non rischierebbe di creare un precedente per qualunque altra piccola comunità nazionale occidentale e ricca – come quella che abita la contesissima Groenlandia – che si mettesse in testa di impedire lo sfruttamento del proprio sottosuolo?
Un futuro incerto tra ideali e realpolitik
La situazione serba mette in luce una tensione tra ideali e realpolitik. L’Unione Europea, che si presenta come paladina dei diritti, della democrazia e finanche della sostenibilità, rischia di apparire ipocrita agli occhi dei giovani serbi.
Secondo un sondaggio condotto dall’Istituto per la Politica Europea, il 65% dei serbi tra i 18 e i 35 anni ritiene che l’UE stia supportando Vučić per interessi economici, sacrificando i principi di trasparenza e democrazia. Questo sentimento è alimentato anche dal fatto che, mentre l’UE critica apertamente la Russia e la Cina, si mostra disposta chiudere un occhio sulle strette autoritarie del governo serbo.
In tale contesto, le proteste in Serbia vanno lette non solo come una sfida a Vučić, ma anche come un messaggio all’Europa.
I giovani serbi chiedono coerenza, rispetto per i loro diritti e per il loro territorio. Se l’UE vuole davvero guadagnare la loro fiducia, dovrà dimostrare di essere disposta a fare una scelta che in ogni caso non sarà indolore.
In caso contrario, la disillusione nei confronti dell’Unione Europea potrebbe trasformarsi in un rifiuto più radicale, spianando la strada alle narrazioni anti-europee che così ben conosciamo (e che a quel punto, davvero, troverebbero nutrimento nella facile retorica delle “bombe Nato lanciate su Belgrado” o del rimpianto per la “Grande Serbia” che fu demolita “ingiustamente” trent’anni fa).
La partita serba, quindi, è molto più di una questione locale: è una prova di credibilità per l’intero progetto europeo. Se il fiero paese danubiano non verrà integrato nell’Unione e trasformato in un presidio di stabilità, continuerà ad essere una polveriera di risentimento e una minaccia per i suoi vicini, con esiti non meno imprevedibili di quelli che si videro a inizio ‘900.
Gli attivisti serbi lo sanno, e di recente hanno scelto un mezzo molto efficace per lanciare il loro j’accuse alla miopia delle istituzioni comunitarie: ottanta di loro hanno pedalato in bicicletta da Novi Sad fino a Strasburgo. Quale risposta riceveranno, ce lo dirà il tempo.