Israele e Palestina: guida per inesperti

Vincenzo D'Arienzo
17/01/2025
Appunti di Viaggio

Il conflitto israelo-palestinese è una delle dispute più complesse e durature della storia moderna. Radicato in questioni storiche, religiose, politiche e territoriali, il conflitto affonda le sue radici nella fine del XIX secolo, con l’emergere di due movimenti nazionalisti: il sionismo, che mirava alla creazione di una patria ebraica in Palestina, e il nazionalismo arabo, che si opponeva a qualsiasi forma di dominio straniero o coloniale nei territori arabi.

Le origini del conflitto (XIX secolo – 1947)

Nel XIX secolo, la Palestina era sotto il controllo dell’Impero Ottomano. Durante questo periodo, il movimento sionista, fondato da Theodor Herzl, promosse la creazione di una patria per il popolo ebraico in risposta all’antisemitismo diffuso in Europa. A partire dalla fine del XIX secolo, un numero crescente di ebrei europei iniziò a emigrare in Palestina, suscitando l’opposizione della popolazione araba locale.

La situazione si complicò ulteriormente con la Dichiarazione Balfour del 1917, in cui il governo britannico espresse il suo sostegno per la creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina. Dopo la Prima Guerra Mondiale, la Palestina divenne un mandato della Società delle Nazioni sotto l’amministrazione britannica, con il compito di implementare questa dichiarazione.

Negli anni ’20 e ’30, l’immigrazione ebraica aumentò significativamente, alimentata dalle persecuzioni in Europa e poi dalla crescente minaccia nazista. La popolazione araba locale, temendo di diventare una minoranza nella propria terra, organizzò proteste e rivolte contro la presenza britannica e l’immigrazione ebraica. Tra il 1936 e il 1939 si verificò la Grande Rivolta Araba, un’importante insurrezione contro il dominio britannico e l’insediamento ebraico.

Il piano di partizione e la nascita di Israele (1947-1949)

Nel 1947, le Nazioni Unite proposero un piano di partizione che prevedeva la creazione di due stati separati, uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale. Mentre la leadership ebraica accettò il piano, la leadership araba lo respinse categoricamente, ritenendolo ingiusto.

Il piano di partizione promosso dalle Nazioni Unite nel 1947, accettato dalla leadership israeliana, ma rifiutato da quella araba. Come si nota, si trattava di un equilibrio estremamente favorevole alla comunità araba.

Lo stallo fu rotto unilateralmente dagli israeliani: il 14 maggio 1948, David Ben-Gurion proclamò la nascita dello Stato di Israele. Il giorno successivo, una coalizione di stati arabi, tra cui Egitto, Siria, Giordania e Iraq, dichiarò guerra a Israele, dando inizio alla prima guerra arabo-israeliana. Il conflitto si concluse nel 1949 con un armistizio che vide Israele espandere il proprio territorio rispetto al piano di partizione, mentre la Cisgiordania fu annessa dalla Giordania e la Striscia di Gaza finì sotto il controllo egiziano. Centinaia di migliaia di palestinesi furono sfollati o fuggirono durante il conflitto, dando origine al problema dei rifugiati palestinesi.

Confronto tra il piano di partizione del 1947 e l’armistizio del 1949

L’occupazione israeliana e le guerre successive (1956-1982)

Negli anni successivi, Israele fu coinvolto in diversi conflitti con i suoi vicini arabi:

  • Crisi di Suez (1956): Israele, insieme a Francia e Regno Unito, attaccò l’Egitto in risposta alla nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Gamal Abdel Nasser.
  • Guerra dei Sei Giorni (1967): Israele lanciò un attacco preventivo contro Egitto, Giordania e Siria, conquistando la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la Penisola del Sinai. Questa guerra segnò l’inizio dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi.
  • Guerra del Kippur (1973): Egitto e Siria attaccarono nuovamente Israele durante la festività ebraica dello Yom Kippur, ma furono respinti dopo pesanti combattimenti.

Durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele conquistò la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la Penisola del Sinai. Tutti questi territori, ad eccezione del Sinai, rimangono sotto occupazione israeliana.

Questi conflitti consolidarono il controllo israeliano sui territori occupati, ma aggravarono anche il risentimento palestinese e arabo.

Dopo la fine della guerra, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione 338, che confermava il principio di “terra in cambio di pace” stabilito nella Risoluzione 242, avviando il processo di pace in Medio Oriente. La sconfitta araba giocò un ruolo importante nella disponibilità dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) a perseguire una soluzione negoziata al conflitto, mentre molti israeliani iniziarono a credere che i territori occupati non potessero essere mantenuti indefinitamente con la forza.

Gli Accordi di Camp David, concordati da Israele ed Egitto nel 1978, miravano principalmente a stabilire un trattato di pace tra i due paesi. Gli accordi proponevano anche la creazione di una “Autorità Autonoma” per la popolazione araba della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, escludendo Gerusalemme, che sarebbe rimasta sotto il controllo israeliano. Un trattato di pace basato su questi accordi fu firmato nel 1979, portando al ritiro di Israele dalla Penisola del Sinai occupata entro il 1982.

La Guerra in Libano (1982)

La guerra del Libano del 1982 rappresenta un passaggio significativo nella questione israelo-palestinese, durante il quale Israele intraprese un intervento militare su larga scala per smantellare il potere politico e militare dell’OLP nel Libano meridionale. Dopo anni di attacchi palestinesi condotti dal territorio libanese e successive ritorsioni israeliane, l’operazione culminò con la sconfitta della maggior parte dei militanti palestinesi, la cattura di Beirut da parte delle forze israeliane e il trasferimento del quartier generale dell’OLP a Tunisi su decisione di Yasser Arafat. Questo intervento segnò un tentativo di Israele di eliminare l’OLP come interlocutore nei negoziati, di ridurre la minaccia lungo i propri confini settentrionali e di consolidare il controllo sui territori occupati, nel quadro della sua strategia politica e militare nella regione.

Le Intifade e il processo di pace (1987-2000)

Nel 1987, scoppiò la Prima Intifada, una rivolta popolare contro l’occupazione israeliana. Questa insurrezione portò alla fondazione di Hamas, un’organizzazione islamista che si oppose sia all’occupazione israeliana sia al processo di pace con Israele.

Gli Accordi di Oslo del 1993 rappresentarono un momento cruciale nel tentativo di risolvere il conflitto. Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) si riconobbero reciprocamente, e fu istituita l’Autorità Palestinese per governare alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Tuttavia, i negoziati non riuscirono a risolvere questioni fondamentali come lo status di Gerusalemme, i confini definitivi e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Nel 2000, fallì un altro tentativo di pace durante il vertice di Camp David, e nello stesso anno scoppiò la Seconda Intifada, caratterizzata da violenze su larga scala.

Il conflitto contemporaneo (2005-oggi)

Nel 2005, con la guida di Ariel Sharon, Israele si ritirò unilateralmente dalla Striscia di Gaza, ma mantenne il controllo delle sue frontiere e dello spazio aereo. L’anno successivo, Hamas vinse le elezioni legislative palestinesi, portando a una frattura tra Hamas e Fatah, il partito dominante in Cisgiordania. Da allora, la Striscia di Gaza è stata teatro di numerosi conflitti tra Israele e Hamas, con pesanti perdite civili da entrambe le parti.

Gli sforzi internazionali per mediare una pace duratura, inclusi i piani dell’ONU e le iniziative degli Stati Uniti, non sono riusciti a risolvere il conflitto. Le tensioni sono ulteriormente aumentate con le politiche di espansione degli insediamenti israeliani nei territori occupati, considerate illegali dal diritto internazionale.

Gli eventi recenti: l’attacco del 7 ottobre 2023 e la risposta di Israele

L’attacco terroristico anciato da Hamas il 7 ottobre 2023 ha segnato una drammatica escalation. L’operazione, denominata “Al-Aqsa”, ha visto migliaia di razzi colpire Israele, insieme a incursioni armate nei kibbutz e in eventi civili, causando circa 1.400 vittime. La reazione di Israele, denominata “Spade di ferro”, ha comportato bombardamenti su vasta scala nella Striscia di Gaza, lanciando un’offensiva terrestre e richiamando decine di migliaia di riservisti.

Questi sviluppi hanno riacceso le tensioni anche su altri fronti, come il confine libanese, dove la presenza di Hezbollah e il coinvolgimento dell’Iran hanno ampliato il raggio d’azione del conflitto.

La tregua del 2025: un passo avanti, ma non la soluzione

Dopo mesi di violenze, la tregua del 15 gennaio 2025 rappresenta un potenziale momento di svolta. L’accordo, mediato da Stati Uniti e Francia, si articola in tre fasi, con un cessate il fuoco iniziale di 42 giorni e il rilascio graduale di 33 ostaggi da parte di Hamas. In cambio, Israele dovrebbe ridurre progressivamente la presenza militare a Gaza.

Tuttavia, questa tregua non affronta i nodi centrali del conflitto, tra cui il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, la sicurezza di Israele e il destino dei territori occupati. La storia insegna che tali accordi rischiano di essere fragili, soprattutto in un contesto in cui le tensioni sono alimentate da anni di sfiducia reciproca.

Un conflitto che coinvolge attori regionali e internazionali

Il conflitto israelo-palestinese non si limita a una disputa locale. Paesi come Iran, Egitto e Arabia Saudita giocano ruoli cruciali nel sostenere le diverse parti in causa. Gli Accordi di Abramo del 2020, che hanno normalizzato le relazioni tra Israele e alcuni Paesi arabi (Emirato Arabi Uniti, Bahrein, Oman e successivamente Marocco), e indirettamente avviato il processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, sono considerati da alcuni osservatori come uno dei fattori che ha spinto l’asse rappresentato dal regime di Teheran, Hezbollah, Hamas e Houthi ad alzare la tensione regionale.

Ora la necessità di un impegno internazionale

La tregua del 2025 dimostra che, anche nelle situazioni più drammatiche, è possibile arrivare a un accordo. Tuttavia, senza una strategia che affronti le cause profonde del conflitto, ogni soluzione rischia di essere temporanea. È essenziale che la comunità internazionale (Paesi arabi inclusi, in primis Arabia Saudita) promuova una soluzione a due Stati, basata sul riconoscimento reciproco e sul rispetto del diritto internazionale.

Gli eventi recenti evidenziano anche l’urgenza di riformare le leadership locali. La politica di Benjamin Netanyahu, focalizzata sulla sicurezza e sull’illusione di uno stallo permanente, è stata criticata per non aver impedito l’attacco di Hamas, mentre l’approccio di Hamas, basato sulla lotta armata e sull’uso dei civili palestinesi come scudi umani e vittime sacrificali di un conflitto regionale, non rappresenta le aspirazioni della società palestinese.


PS. Una menzione merita di essere dedicata al Piano proposto da Donald Trump nel gennaio 2020, durante il suo primo mandato presidenziale, accettato allora dal premier israeliano Netanyahu ma respinto dai palestinesi. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca potrebbe comportare la riemersione di quel progetto dai cassetti, almeno come base di partenza. Staremo a vedere.

“Vision for Peace”: il piano dell’Amministrazione Trump presentato a gennaio 2020