La nuova Commissione UE è una prova di democrazia, nonostante i tanti distinguo

Francesco E. Celentano
02/12/2024
Poteri

Il 28 novembre 2024 il Parlamento europeo, a stretta maggioranza, ha approvato la composizione della nuova Commissione a guida Von der Leyen. Un esito non scontato, viste le premesse, che rende utile qualche considerazione rispetto alla portata democratica di quanto accaduto negli ultimi mesi nel vecchio Continente. 

Democrazia rappresentativa sotto esame

Parallelamente al processo d’integrazione europea, infatti, in molti Paesi membri non sono storicamente mancate polemiche rispetto ad una presunta mancanza di democrazia nel sistema istituzionale della più atipica organizzazione regionale presente nel panorama internazionale. Da sempre si discute di un eccesso di burocratizzazione dei processi decisionali, di una “distanza dai cittadini” delle istituzioni unionali e, più in generale, di scarsa aderenza delle scelte UE al comune sentire delle popolazioni. Potrebbe esser proprio questa scarsa aderenza la causa dellostallo degli ultimi mesi, durante i quali si è dovuta cercare una sintesi tra l’esito delle elezioni europarlamentari e la decisione, adottata dai Capi di Stato e di Governo, di dare vita al Von der Leyen bisLa nuova Commissione ha ottenuto il voto favorevole del più basso numero di rappresentanti dei cittadini europei da quando il sistema attuale è in vigore. A riprova che qualcosa si è incrinato nel rapporto tra coloro che popolano l’Unione e chi li governa. È indubbio che la democrazia rappresentativa presenti vantaggi e svantaggi, come qualunque sistema di governo. Ciononostante, resta, ad oggi, il miglior modo per ottenere sintesi – spesso, ma non sempre, efficaci – tra istanze dal basso e complessità del governare. In questa cornice si ritroverà ad operare la nuova Commissione UE che davanti a sé ha sfide enormi, tra tutte le due guerre alle porte del Continente e il cambiamento climatico sempre meno clemente, tanto grandi da far apparire la recente pandemia un fenomeno tutto sommato gestibile. 

Il peso degli Stati membri e la complessità dei gruppi parlamentari

Venendo alla questione democratica, spesso si dimentica che l’Unione, almeno nella sua impostazione attuale riferita al Trattato di Lisbona del 2008, non è uno Stato federale in cui incolpare l’esecutivo per i problemi dei suoi Membri, bensì un’organizzazione intergovernativa che, in quanto tale, è diretta nella sua attività dagli Stati che la compongono. Non a caso, infatti, il motto dell’UE era e resta “unita nelle diversità”. Da questa prospettiva, quindi, discorsi propagandistici a parte, sono i Ventisette di fatto a orientarel’Unione e le sue politiche e la Commissione, d’intesa con gli stessi e con i rappresentanti dei cittadini a livello parlamentare, a darne attuazione. Un meccanismo di dialogo interistituzionale obbligato che garantisce la portata ampia, in termini di condivisione, di tutti i provvedimenti adottati a Bruxelles e destinati a modificare, come da Accordi, gli ordinamenti nazionali. Un altro fattore spesso ignorato riguarda, invece, la composizione dei gruppi parlamentari europei. Nel dibattito pubblico si sente parlare di popolari, socialisti, verdi, liberali, conservatori, ecc. come fossero dei blocchi unici all’interno dei quali vige un clima di assoluta concordia su tutti i temi; non è così. Trattasi, appunto, di gruppi creati tra partiti nazionali affini per visione della società, dell’economia e della proiezione esterna dei Ventisette come singoli e quale gruppo. Visioni simili, non univoche. Per questo, gli ultimi mesi di “stallo”, le tante riunioni e i distinguo che hanno condotto al voto del 28 novembre hanno rappresentato, diremmo finalmente, un momento di pur aspro dibattito che sembra fosse richiesto proprio dagli elettori continentali. Per molti sarebbe stato auspicabile ignorare l’evidente crescita di partiti contrari, o quanto meno scettici, all’Unione e spesso definiti, ancora una volta ritenendoli un monolite e non un insieme di simili ma diversi, antieuropeisti. 

Un messaggio chiaro degli elettori europei

In questa direzione, le elezioni del giugno 2024 hanno palesato una richiesta di cambiamento rispetto al recente passato dell’Unione. È senz’altro vero che i gruppi parlamentari che sostenevano apertamente la Commissione uscente sono usciti tutto sommato indenni dal voto, ma è vero anche che la crescita, in termini di consenso, dei tanti e diffusi partiti “anti-UE” (si conceda la semplificazione primacontestata) è difficilmente negabile. Di più, questi ultimi hanno saputo evolversi dividendosi al loro interno e facendo emergere, così, una distinzione tra istanze critiche moderate – è il caso del partito italiano di maggioranza relativa – edestremiste; o forse più semplicemente visioni diverse del processo d’integrazione. Quello che è certo è la trasversalità di questi movimenti che dalla Francia alla Germania, passando, tra tutti, per Italia, Paesi Bassi e Spagna, portano nelle istituzioni UE nuove idee che, se pur criticabili da tanti, meritano di essere ascoltate a pena di trasformare la democrazia in un sistema valido e salvifico solo quando la moderazione ha la meglio e i toni, a furia di esser pacati, si spengono. Il pericolo, in questo caso, sarebbe la conseguente ricerca di idee fin troppo rumorose.

Bilanciare europeismo e democrazia sostanziale

Il Trattato di Lisbona assegna alla persona designata dai Governi quale Presidente della Commissione, previo assenso del Parlamento, il difficile compito di trasformare l’esito del voto dei cittadini in un governo da porre alla guida di una Unione tra Stati diversi ma accomunati da culture giuridiche e storie similari; nel farlo, dovrà tenere conto dei nomi proposti dai singoli esecutivi nazionali quali espressione di una sintesi a livello statale. Compito dagli esiti mai scontati. Alcune scelte compiute in questi mesi dimostrano, però, che bilanciare europeismo e democrazia sostanziale (e non solo formale) è possibile. Se fruttuoso potrà dirlo solo il tempo. Tra tutte, la vicepresidenza esecutiva assegnata al Commissario Fitto, proposto dall’Italia, ne è un esempio concreto, al pari di quella assegnata alla Ministra spagnola Ribeira. Escludere del tutto finanche le voci più moderate, quanto meno rispetto a quelle più estreme, del composito movimento critico verso l’Unione attuale avrebbe significato molto probabilmente facilitare il processo di disintegrazione che alcuni, per fortuna ancora pochi, nel vecchio Continente auspicano. Innestare la Commissione che, è bene ricordarlo, detiene il potere di iniziativa legislativa nell’Unione, con voci apparentemente contrastanti non farà altro che garantire dibattiti vivaci e compromessi più rispondenti alle istanze dei cittadini. Diversamente, affermare che il modello del business as usual sia efficace e che quindi le politiche UE degli ultimi anni hanno conquistato la fiducia degli europei, sarebbe falso e quindi un errore. Se davvero tutto fosse stato apprezzato dagli oltre 150 milioni di votanti del Continente, non si sarebbe dovuto discutere di “spostamento a destra” della maggioranza UE né raggiungere il faticoso compromesso che si riassume in commissari spesso agli antipodi in termini di visione dell’Europa unita. Tutto in piena aderenza con un sistema elettorale proporzionale che caratterizza il Parlamento europeo e lo rende estremamente rappresentativo; quindi, democratico e ben distante dall’appiattimento imposto dai sistemi maggioritari. 

Il 1° dicembre la nuova Commissione dell’Unione europea s’insedierà ufficialmente, dunque. I temi da attenzionare sono molti, come molte sono le voci da ascoltare per garantire che, tra cinque anni, i movimenti critici non si trasformino da minoranze rumorose in maggioranze capaci di affievolire la brillantezza di quelle stelle gialle a sfondo blu.