Le parole sono semi e danno frutti, anche quelle del war speech trumpiano

Carmelo Palma
20/01/2025
Orizzonti

Cosa significa che il Presidente eletto degli Stati Uniti minacci un Paese della Nato (la Danimarca) di prendersi parte del suo territorio (la Groenlandia) con la forza, se non accetterà di cederlo agli Stati Uniti con una pacifica e profittevole compravendita fondiaria? 

Per “Cosa significa?” intendo proprio quale sia il significato politico di quelle parole, non quale giudizio meriti chi le ha pronunciate, quale obiettivo – e quanto vicino o distante da quanto dichiarato – si prefiggesse nel pronunciarle e neppure quanto probabile sia, nell’immediato, che Trump decida davvero l’invasione militare della Groenlandia.

La risposta che mediamente suscita questo interrogativo tra gli analisti scettici e, per così dire, anti apocalittici è che quella minaccia non significhi proprio niente, perché non era un annuncio, né un mezzo in vista di un fine, ma un fine e un fatto in sé, una performance politico-mediatica rivolta al vasto pubblico degli elettori americani e di tutti i Paesi nel cuore o nel mirino dei campioni dell’America first, per impressionarli – cioè inorgoglirli, spaventarli, fomentarli, depistarli… – e soverchiarli facendo sentire loro l’incombenza di una sovranità di nuovo conio, liberata dagli ingombri delle consuetudini protocollari e perfino dagli obblighi di solidarietà tra Paesi alleati. 

Insomma – questa è la tesi anti apocalittica – Trump vuole che tutti, amici e nemici, si persuadano che sarebbe capace di tutto, anche di invadere la Groenlandia, ma non bisogna confondere l’espressione della sua volontà di potenza, con l’annuncio di un programma di conquista.



Questa lettura ha dalla sua la circostanza, difficilmente smentibile, che Trump ha promesso durante il suo primo mandato molte più cose di quante ne abbia mantenute, anche se rimane la concreta possibilità che semplicemente non sia riuscito a farle per le resistenze incontrate nel cosiddetto deep state – resistenze che in questo secondo mandato saranno di molto inferiori, se non inesistenti – o per l’impossibilità materiale di realizzarle, non perché le avesse deliberatamente confinate nel repertorio della boutade buone solo per fidelizzare il voto fanatico.

Inoltre questa lettura ha una sua coerenza con il fenomeno più caratteristico delle democrazie contemporanee, che è la dissociazione logica e morale tra la politica e il governo, cioè in fondo tra il dire e il fare, tra la rappresentazione e la realtà: le elezioni si vincono o si perdono a prescindere dai fatti e anche contro i fatti e il consenso politico è diventato più la misura di un disagio, che chiede di essere riconosciuto e legittimato che l’espressione di un progetto, della cui realizzazione occorra dar conto.

Trump non ha avuto bisogno nel primo mandato di deportare milioni di irregolari per consolidare la sua base elettorale e non ne avrà di certo bisogno nel secondo. Gli basta mostrarsi dalla parte degli americani arrabbiati e spaventati, cioè di pensarla come loro e di esprimersi con le loro stesse parole.

Tuttavia, bisognerebbe essere più cauti e non dare così per scontato che le parole, anche in una politica imprigionata nel framework della polarizzazione social, rimangano davvero solo parole. Le parole sono semi e danno sempre frutti.

Non esistono fatti in politica, a partire dai più orribili, che non siano prima stati “solo parole”, e raramente le idee politiche hanno avuto conseguenze diverse da quelle che promettevano o minacciavano a parole. 

Credere che nel baraccone del circo Maga Trump possa essere sia bombarolo che artificiere, sia piromane che pompiere, sia guerrafondaio che pacifista significa confidare eccessivamente in un copione che, in questi termini, nessuno peraltro ha mai scritto. Soprattutto significa credere che il 6 gennaio del 2021 ci sia stata solo una disordinata scampagnata di balordi e fuori di testa, non il momento rivelatore del trumpismo reale, quando le parole sulle “elezioni rubate” sono diventate un assalto al Campidoglio e alla democrazia americana.