L’Europa si liberi dei dazi che si è autoimposta: parla Draghi
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Negli ultimi mesi, l’Unione Europea è tornata al centro del dibattito economico globale, ma non per le ragioni che vorrebbe. Da un lato, l’eccesso di regolamentazione interna sta erodendo la competitività delle imprese rispetto ai concorrenti americani e asiatici; dall’altro, le tensioni commerciali con gli Stati Uniti, alimentate dall’agenda protezionista dell’amministrazione Trump, minacciano di assestare un ulteriore colpo alla crescita.
In un editoriale per il Financial Times, Mario Draghi ha tracciato un quadro nitido delle sfide che l’Europa deve affrontare e ha delineato una via d’uscita. Il suo messaggio è chiaro: l’UE non può permettersi di restare impantanata in regolamentazioni soffocanti e in una domanda interna stagnante. Se vuole competere, deve riformarsi.
Una vulnerabilità autoindotta
L’economia dell’Eurozona ha iniziato a perdere slancio già alla fine dello scorso anno, ma le difficoltà strutturali sono radicate più in profondità. “Il rischio di dazi statunitensi aggiunge un ulteriore elemento di incertezza,” osserva Draghi, “considerata la dipendenza dell’Europa dalla domanda esterna”.
Per decenni, l’apertura commerciale è stata un pilastro della crescita europea. Oggi, però, questa dipendenza dall’export sta diventando un fattore di rischio. Le economie nazionali che hanno prosperato grazie ai mercati globali si trovano ora esposte ai venti del protezionismo. L’Europa, in altre parole, è diventata vulnerabile proprio a causa della sua strategia di crescita.
L’iper-regolamentazione, un dazio interno
Se le barriere commerciali imposte dagli Stati Uniti preoccupano Bruxelles, le vere strozzature sono quelle imposte dall’UE a sé stessa. Draghi identifica due fattori chiave della crisi europea, il primo dei quali è la regolamentazione eccessiva.
L’UE, sostiene l’ex presidente della BCE, ha costruito un mercato interno incompleto, frammentato da ostacoli burocratici che soffocano l’innovazione e penalizzano le imprese. Studi del Fondo Monetario Internazionale mostrano che le barriere nel mercato unico impongono un costo equivalente a un dazio del 45% nel manifatturiero e addirittura del 110% nei servizi – ben più alto di qualsiasi tariffa imposta da Washington o Pechino.
L’Europa, in altre parole, è vittima di un paradosso: per un’impresa europea, le barriere interne sono più penalizzanti delle guerre commerciali internazionali.
Il settore digitale ne è un esempio lampante. La regolamentazione europea, nata con l’intento di proteggere i consumatori, ha spesso avuto l’effetto opposto, rallentando lo sviluppo delle imprese tecnologiche. Draghi cita il GDPR come caso emblematico: il regolamento ha imposto costi di conformità che per alcune startup europee si sono tradotti in un calo dei profitti fino al 12%. Mentre la Silicon Valley prospera in un ambiente flessibile, l’Europa si è autoimposta vincoli che rendono più difficile la scalabilità delle sue aziende.
Un’economia sbilanciata verso l’export
Il secondo problema strutturale, secondo Draghi, è la debolezza cronica della domanda interna, un fenomeno esacerbato dalla crisi finanziaria del 2008.
Negli ultimi vent’anni, il surplus commerciale dell’Eurozona si è gonfiato: mentre gli Stati Uniti mantenevano un rapporto tra commercio e PIL relativamente stabile, passando dal 23% al 25%, quello europeo è balzato dal 31% al 55%. In altre parole, l’Europa ha compensato la stagnazione della domanda interna con una sempre maggiore dipendenza dalle esportazioni.
Finché la globalizzazione procedeva senza intoppi, questo modello poteva funzionare. Ma il protezionismo americano e il rallentamento del commercio globale lo stanno mettendo in crisi. L’UE ha costruito un’economia eccessivamente esposta ai cicli globali e ora ne paga il prezzo.
La terapia Draghi: riforme e investimenti
Per Draghi, la soluzione passa attraverso due direttrici. Da un lato, riforme strutturali per rimuovere le barriere interne e creare un vero mercato unico, capace di favorire l’innovazione e ridurre la dipendenza dall’export. Dall’altro, un uso più attivo della politica fiscale per stimolare la domanda interna e incoraggiare gli investimenti in ricerca e sviluppo.
“La politica fiscale può essere un catalizzatore per rilanciare la crescita,” sostiene Draghi, “inviando un segnale forte alle imprese affinché investano in innovazione”. La proposta della Commissione Europea di un Competitiveness Compass potrebbe rappresentare un primo passo in questa direzione, rimuovendo ostacoli normativi e rafforzando il tessuto produttivo europeo.
Il nodo politico
Tuttavia, la sfida non è solo economica, ma politica. Draghi sottolinea che rimuovere le barriere interne e adottare una politica fiscale più aggressiva richiede un cambio di paradigma. Per troppo tempo, l’Europa ha visto la regolamentazione come uno strumento di protezione, senza considerare i costi sulla competitività.
L’illusione che un’eccessiva prudenza garantisca stabilità si è rivelata un freno alla crescita. L’UE, osserva Draghi, non è riuscita né a rafforzare il welfare, né a garantire bilanci pubblici sani, né a tutelare la propria autonomia economica.
Un momento decisivo
L’Europa si trova davanti a un bivio. Continuare a navigare tra iper-regolamentazione e dipendenza dall’export significa accettare un ruolo sempre più marginale nel panorama globale. Il rischio è che l’UE si scopra impreparata di fronte a nuove crisi.
Draghi lancia un monito: la competitività dell’Europa non si giocherà sulle reazioni ai dazi americani o alle tensioni geopolitiche, ma sulla capacità di riformarsi dall’interno. La strada da percorrere è chiara: meno burocrazia, più investimenti e un mercato interno finalmente integrato.
Il tempo per l’inerzia è scaduto.