Marijuana: non c’è legalizzazione senza liberalizzazione. Il declino del modello USA sia da monito per l’Europa

Daniele Venanzi
17/03/2025
Interessi

Secondo uno studio condotto da Whitney Economics, il 70% dei coltivatori e venditori di marijuana negli Stati Uniti opera ancora illegalmente, benché ad oggi siano 24 gli Stati che ne hanno legalizzato l’uso ricreativo (oltre a Washington D.C. e altri territori non incorporati) e 39 quelli in cui ne è consentito l’uso medico. A questi, si aggiungono Stati, come il North Carolina, in cui il possesso della sostanza, benché non legalizzato, è stato ampiamente depenalizzato – riducendo soltanto a 4 il numero di Stati in cui la sostanza risulta ancora completamente illegale.

Si potrebbe erroneamente dedurre, dunque, che un tasso di criminalità così elevato, nonostante il processo di legalizzazione abbia ormai investito gran parte del territorio nazionale, sia imputabile alla legislazione vigente in quegli Stati in cui la cannabis rimane anche solo parzialmente illegale, con pene più o meno aspre per lo spaccio o anche il semplice possesso. Al contrario, per quanto sorprendente, le principali roccaforti della produzione illegale di marijuana sono concentrate proprio in quegli Stati che hanno tradizionalmente assurto al ruolo di apripista per la legalizzazione, come Colorado e California.

Perché, dunque, la legalizzazione, che si sperava avrebbe ridotto la popolazione carceraria e, soprattutto, sferrato un duro colpo ai cartelli del narcotraffico, non ha sortito gli effetti auspicati e promessi dal movimento antiproibizionista? Perché, molti di quei consumatori che hanno lottato per decenni per la legalizzazione, continuano a rivolgersi al mercato nero? Sarebbe semplice, per la gioia dei proibizionisti di ogni colore, sostenere che il consumo di stupefacenti sia indissolubilmente vincolato alla criminalità, ma anche le droghe rispondono alle stesse leggi economiche e logiche di mercato di qualsiasi altro bene di consumo.

Se si muove, tassalo; se continua a muoversi, regolamentalo; se smette di muoversi, sussidialo”

Il Presidente Reagan sosteneva che “le vedute del Governo sull’economia possono essere riassunte in frasi molto semplici: se si muove, tassalo; se continua a muoversi, regolamentalo; se smette di muoversi, sussidialo”. Con i Governi locali degli States precipitatisi a tassare e regolamentare il business della cannabis legale prima ancora che iniziasse a muoversi, non stupisce di certo che il crimine organizzato abbia ancora gioco così facile.

A tal proposito, una dettagliata inchiesta del Wall Street Journal indaga sulla profonda crisi che attraversa il settore proprio in uno degli avamposti mondiali della coltivazione legalizzata di marijuana e canapa: la contea di Pueblo, in Colorado. Secondo il già citato centro di ricerca Whitney Economics, oggi solo il 27% delle aziende del settore genera profitti – in calo drastico rispetto al già preoccupante 42% del 2022. In posti come Pueblo, dove la legalizzazione del 2014 – prima del suo genere negli USA – fu accolta come la manna che avrebbe trasformato l’intera Contea nel Paese di Bengodi, guadagni ridotti e perdite elevate comportano il fallimento di centinaia di imprese aperte nell’ultimo decennio, con abbandono di proprietà, perdita di posti di lavoro ed erosione della base fiscale. Oggi, infatti, le aziende del settore rimaste a Pueblo sono appena 45; soli 8 anni fa, nel 2017, erano più di 200.

Tasse, regole e ancora tasse

A un primo sguardo, in un Paese in cui l’uso quotidiano di cannabis tra gli individui tra i 35 e i 50 anni è al suo massimo storico, risulta quanto meno bizzarro che la domanda non basti a sostenere l’offerta. Al contrario, è sufficiente guardare ai meccanismi distorsivi del mercato introdotti dal legislatore per rendersi conto che quello della marijuana legale non è un fallimento di mercato, ma di Stato. Nella città di Pueblo, nello specifico, uno spinello a norma di legge è soggetto a: IVA al 15% e accisa al 15% imposte dallo Stato del Colorado, ulteriori IVA al 6% e accisa al 5% della Contea e, per non farsi mancare nulla, un’accisa aggiuntiva al 10% per rimpinguare le casse del Comune – tra le più alte nello Stato. Ai fardelli fiscali occorre sommare i costi di adeguamento a normative diaboliche e meccanismi burocratici mortificanti.



“Se smette di muoversi, sussidialo”. La massima di Reagan assume connotati quasi profetici, alla luce dei sussidi che alcuni Stati hanno iniziato a erogare a produttori e rivenditori autorizzati, i quali lamentano la scarsa competitività dei propri business rispetto alla concorrenza illegale perché costretti a praticare prezzi fuori mercato, mantenuti eccessivamente alti da balzelli e scartoffie. Particolarmente grottesco è il caso della California, che nel 2021, ad appena 5 anni dalla legalizzazione, ha istituito un fondo di 100 milioni di dollari appositamente per sostenere i produttori nell’affrontare i proibitivi costi di adeguamento a una legislazione statale miope, che ha costretto i consumatori a tornare a rifornirsi dagli spacciatori. Nel 2023, il “Golden State” ha stanziato un ulteriore finanziamento di 20 milioni, stavolta per i rivenditori. Politiche analoghe sono state introdotte anche in Illinois, Massachusetts e Maryland. Il tutto, come dichiarato al New York Post da Pete Sepp, Presidente della National Taxpayers Union, pur di non rimuovere quei macigni che impediscono la naturale crescita del settore, comportando al contempo oneri per i contribuenti.

Spesso, il prezzo da pagare non si limita a una mera questione di bilanci pubblici, ma si esprime in piaghe sociali. [La Contea californiana di Humboldt](https://www.internazionale.it/magazine/2022/05/26/un-settore-promettente-che-va-in-fumo#:~:text=Le contee di Humboldt%2C Mendocino,quando la cannabis era illegale.), ad esempio, è tristemente nota per essere diventata la capitale nazionale della coltivazione illegale di marijuana: un territorio montuoso e tortuoso, non dissimile da quello della Colombia, dove, analogamente, i cartelli dei narcos sudamericani trafficano droga, ma anche e soprattutto esseri umani, impiegati come schiavi in piantagioni arroccate in zone boschive e recondite dove nemmeno le forze dell’ordine osano più addentrarsi. In centinaia, da quei territori, non fanno mai ritorno, come i desaparecidos negli anni ‘70. Dramma umano, quello vissuto dalla comunità di Humboldt, che trova ampia e fedele trattazione in “Murder Mountain”, eccellente docuserie disponibile su Netflix.

Il modello fallimentare adottato da molti Governi locali degli States dovrebbe rappresentare un monito e un benchmark negativo per i Paesi europei che hanno già legalizzato la sostanza o si apprestano a farlo. Ciononostante, **lo stato dell’arte nel Vecchio Continente appare confuso, arretrato e destinato a fallire** ben più che sull’altra sponda dell’Atlantico. I modelli adottati nei Paesi capofila di un’apparente legalizzazione a scopo ricreativo – Lussemburgo, Malta e Germania – contemplano prevalentemente la depenalizzazione del consumo privato entro quantità irrisorie, la coltivazione “da davanzale” di un numero esiguo di piante e, nel caso di Lussemburgo e Malta, l’acquisto di grammature ridotte presso pochi rivenditori sottoposti a regolamentazione stringente e previa registrazione in albi di consumatori. La Germania incarna a pieno il paradosso della legalizzazione del consumo a scopo ricreativo ma non della produzione e della vendita – se non, anche qui, nei social club autorizzati, “che sono altamente regolamentati e non possono guadagnarci” in quanto persino costretti a configurarsi come entità non a scopo di lucro, come spiega Adrian Fischer, cofondatore dell’azienda di marijuana terapeutica Demecan. In un contesto così blindato, ci si chiede come pensa lo Stato tedesco che il crimine organizzato possa lasciare il passo alla legalità.

Anche la Spagna ricorre allo stratagemma dei social club per allentare le maglie della proibizione, ma si tratta pur sempre di timide aperture con il freno a mano tirato, in un contesto in cui permane il divieto persino dell’uso domestico di una sostanza formalmente ancora illegale. In ogni caso, il consumo in pubblico rimane vietato in tutto il territorio europeo, anche e soprattutto nei Paesi Bassi, dove – è bene chiarire – il consumo e la vendita di marijuana sono in realtà completamente illegali ma tollerati, in una situazione paradossale in cui lo Stato chiude un occhio – se non entrambi – davanti al commercio di rivenditori costretti a rifornirsi da produttori che operano su un mercato a dir poco grigio. Vi sono poi modelli orientati alla sola depenalizzazione, come quello portoghese, in cui è consentito il possesso a uso personale di marijuana fino a 25 grammi e di hashish fino a 5 grammi.

Non vi è vera legalizzazione senza liberalizzazione

Tutti gli approcci passati in rassegna, dai più stringenti ai più permissivi, si riducono dunque al minimo comune denominatore della legalizzazione “a determinate condizioni”; su tutte, il divieto in vario grado di produrre a livello industriale e vendere al dettaglio e senza restrizioni la marijuana. Un modello, quello della legalizzazione fortemente condizionata, che produce effetti concreti non dissimili né migliori dalla pura e semplice depenalizzazione, instaurando al contempo un regime di “marijuana di Stato”.

In ultima analisi, non vi può essere vera legalizzazione senza liberalizzazione, intesa come riconoscimento della piena libertà di commercio senza vincoli legislativi e, occorre ribadire, senza meccanismi distorsivi del mercato perorati da una mentalità dirigista e paternalista nell’approccio agli stupefacenti, che permane ancora massicciamente anche tra i legislatori dall’inclinazione più progressista. In assenza di un mercato autenticamente libero, la mera depenalizzazione presenta certamente il pregio di eradicare la persecuzione di Stato ai danni dei fumatori, ma finisce persino con il favorire le mafie, fornendo loro, in un certo senso, uno “scudo penale” dietro cui ripararsi, senza minimamente intaccare il monopolio che la criminalità organizzata esercita sulla produzione, importazione e distribuzione della cannabis.