Meloni da Trump: baci e abbracci, ma zero tituli

L’incontro di ieri alla Casa Bianca era oggettivamente difficile per la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
Non poteva irritare l’ospite, né rompere un’amicizia politica cementata da anni di convergenze ideologiche tanto pericolose, quanto irrevocabili, perché costitutive del corpo e dell’anima della destra sovranista italiana.
Di qui il prevedibilissimo allineamento di Meloni sulla retorica anti-woke e anti-migratoria, che però nel trumpismo non è affatto una rivoluzione del buon senso e del buon governo, ma un coacervo di istanze discriminatorie: un contro-wokismo reazionario e razzista.
D’altra parte Meloni non poteva apparire agli occhi degli altri leader europei una Orban qualunque, cioè una semplice figurante del partito Maga, infiltrata nel cuore delle istituzioni del continente. Non poteva, anche in questo caso, per vincoli oggettivi, prima che per indisponibilità soggettiva, visto che rompere con l’Ue, da cui per mille ragioni l’Italia dipende più che dagli Stati Uniti, è possibile solo in una logica di “omicidio-suicidio”. Strategia accarezzata dai nichilisti della Lega, ma del tutto autolesionistica per Meloni.
Così alla fine Meloni si è barcamenata con abilità, grazie anche alla generosità del padrone di casa, evidentemente non intenzionato a metterla troppo in difficoltà, cosa che peraltro sarebbe stata insensata perché Meloni rimane la suo sponda più solida e rilevante nell’Europa nemica e anche la più disponibile a lasciarlo delirare, facendo finta di non sentire quello che dice e di vedere un bicchiere sempre più mezzo pieno di quello che è.
Per Meloni l’incontro di ieri ha avuto un indubbio segno positivo. Si è rafforzata rispetto alle componenti supertrumpiane della sua maggioranza, ha tenuto il punto sull’Ucraina – cosa importante perché, a differenza di quel che pensano la maggioranza degli elettori e eletti della destra, il destino dell’Ucraina è, né più ne meno, quello dell’Europa – e si è proposta ed è stata riconosciuta come mediatrice tra la Casa Bianca e Bruxelles, senza cercare accordi commerciali separati e più favorevoli per l’Italia (cosa comunque impossibile all’interno dell’unione doganale europea).
Rimane comunque il fatto che l’idea di trovare un giusto mezzo tra le pretese dell’America e gli interessi dell’Europa e del libero commercio internazionale non ha nessuna sostanza politica, visto che la guerra tariffaria di Trump non è il fine, ma il mezzo di un’altra guerra, ben più totale, all’ordine economico occidentale e la richiesta della Casa Bianca non è quella di abbassare le barriere commerciali europee, ma di incassare un pizzo, cioè ottenere un sussidio internazionale come corrispettivo del servizio di protezione fornito dagli Usa al sistema degli scambi globali.

Nulla di positivo o di diverso dal previsto l’incontro di ieri ha invece riservato sul lato americano. Mentre Trump riceveva Meloni gli Usa votavano all’Onu con la Russia, la Bielorussia e un pugno di tirannie centramericane, asiatiche e africane contro una risoluzione per la promozione dei diritti umani e la democrazia e il mediatore americano Witkoff, fallita la tregua a lungo annunciata e mai concretizzatasi, continuava a lavorare a un accordo di pace fondato su due punti irrinunciabili per Mosca e inaccettabili per Kyiv: l’annessione alla Russia dei territori occupati e il disarmo e la neutralità dell’Ucraina. Anche sui dazi e sulla strategia economica della Casa Bianca, nessuna novità, se non l’apertura di una guerra contro il capo della Fed Powell, finito anche lui nella lista dei licenziandi.
Vedremo se oggi Vance, dopo le cortesie di Trump, si metterà a fare il poliziotto cattivo e arriverà in Italia con un bagaglio di più esplicite minacce. Ma il bilancio di ieri non segna nei fatti alcun passo avanti positivo, né per l’Italia, né per l’Europa.