Tre anni, tre guerre. Un bilancio sull’Ucraina alla vigilia del ritorno di Trump
Tra meno di una settimana Donald Trump si insedierà di nuovo come presidente degli Stati Uniti. Per capire le opzioni che ha di fronte sull’Ucraina, è utile trarre un bilancio su come è andato il conflitto finora, durante gli anni del mandato di Joe Biden.
Man mano che i dati evidenziano tendenze di lungo periodo, infatti, diventa più facile capire se e come il corso sanguinoso della guerra sia stato influenzato dalle scelte del vecchio inquilino della Casa Bianca, quanto convenga al suo successore discostarsi dalla sua strategia, e in quale direzione dovrebbe farlo.
Una guerra su tre livelli
Cominciamo con un breve riassunto dei fatti. Anzitutto è importante chiarire che il regime di Vladimir Putin ha ingaggiato una guerra su tre livelli:
- la guerra sul campo contro gli ucraini;
- la guerra economica contro gli ucraini (alla quale i loro alleati hanno risposto scatenandone una contro il regime russo);
- la guerra mediatica, che ha preso di mira esclusivamente o prevalentemente gli alleati degli ucraini.
Questi tre livelli, stando al manuale operativo dei comandi militari russi e in particolare di Valery Gerasimov, dovrebbero scattare simultaneamente, interconnessi in un’unica “guerra ibrida”.
Di fatto, però, dal 2022 ad oggi i tre livelli hanno finito per disporsi in una sequenza di causa-effetto.
Svanite le opportunità di una rapida vittoria ucraina sul campo, che intimoriva sia Mosca che Washington, si è passati nel 2023 ad una guerra di logoramento dove il fattore economico è diventato preponderante. Da quel momento, tanto più le risorse russe per proseguire il conflitto sono andate esaurendosi, tanto più ha guadagnato importanza la guerra mediatica per indurre gli alleati dell’Ucraina a lasciare la presa.
Fatta questa premessa, ripercorriamo nel dettaglio le vicende degli ultimi tre anni.
Nel febbraio 2022 Putin provò a concludere la guerra contro l’Ucraina, che aveva scatenato esattamente otto anni prima, con un’invasione su vasta scala.
Sul fronte Sud, complice la corruzione o l’incapacità degli ufficiali ucraini, i ponti verso la Crimea non vennero distrutti in tempo e gli invasori occuparono le regioni di Zaporizhzhija e Kherson, incontrando una seria resistenza solo in quella di Mykolaiv.
Sul fronte Est, vennero occupate tutta la regione di Luhansk e la città costiera di Mariupol (dove le foto satellitari dei cimiteri hanno fatto stimare tra i 75.000 e i 100.000 morti).
Sul fronte Nord invece, contro ogni aspettativa, l’attacco alla capitale fallì, a causa della logistica scadente e di alcuni armamenti evoluti che gli ucraini possedevano (in particolare i razzi anticarro Javelin e i razzi antiaerei MANPAD). Nel ritirarsi dalle regioni di Kiev, Sumy e Chernihiv gli invasori massacrarono gli abitanti di intere cittadine tra cui Bucha.
Queste atrocità contro i civili nelle zone occupate troncarono i colloqui per la resa che il governo ucraino aveva tentato di avviare in Turchia.
Nel frattempo, una coalizione di una cinquantina di nazioni (perlopiù democrazie liberali del cosiddetto “Occidente”) varava alcune timide sanzioni contro la Russia, come l’esclusione dal sistema di pagamenti SWIFT, e procurava un tardivo sostegno militare, in particolare inviando venti lanciarazzi multipli HIMARS. L’effetto di questi ultimi sulla fragile logistica dei russi fu comunque devastante: unito a un brillante colpo dei servizi segreti, che misero fuori uso il ponte tra Russia e Crimea, permise all’esercito ucraino di cacciarli da Kherson e della regione di Kharkiv tra settembre e novembre.
A questo punto, come stanno testimoniando sempre più persone dello staff di Joe Biden, il dittatore russo minacciò l’uso delle armi nucleari nel caso in cui i suoi reggimenti avessero sofferto una sconfitta decisiva. Sotto pressioni degli Stati Uniti, perciò, gli ucraini non annientarono l’armata russa in fuga da Kherson e si limitarono a chiedere agli alleati armamenti per una futura “controffensiva”.
Le democrazie “occidentali”, in breve, avevano scelto di affidare la salvezza dell’Ucraina al braccio di ferro economico.
Nel 2023 entrarono quindi in vigore le sanzioni contro il gas russo e, a partire dall’estate, il “tetto al prezzo” del petrolio russo. L’obiettivo era costringere il regime di Putin a svendere il suo petrolio (peraltro a paesi amici dell’Occidente come l’India e la Turchia) guadagnandoci troppo poco per poter supportare lo sforzo bellico. La mossa dissestò le casse del regime, ma non del tutto: diversi imprevisti (tra cui le scelte dell’OPEC, la forte domanda cinese e il conflitto di Gaza) tennero alto il prezzo mondiale del petrolio, mentre la Russia metteva in acqua una “flotta fantasma” di navi cargo formalmente straniere per approfittarne.
Nel frattempo la “controffensiva” ucraina falliva, anche a causa della distruzione della diga di Kakhovka con l’immenso ecosistema lacustre che alimentava.
Gli unici successi vennero colti, ancora una volta, sul piano tecnologico. Grazie ai droni da ricognizione, infatti, gli ucraini furono finalmente in grado di decimare l’artiglieria russa (oggi ridotta a 8.000 pezzi, di cui 2.000 dell’epoca di Stalin, contro i 20.000 di tre anni fa). Inoltre, grazie ai droni marini riuscirono a sloggiare la flotta russa dal mar Nero per la prima volta dal 1783. Ciò permise al paese più fertile del mondo di riprendere le esportazioni di cereali, che prima erano state possibili solo in minima parte grazie ad un’artificiosa “Grain Initiative” mediata dall’ONU.
E veniamo al 2024, l’anno peggiore per entrambi i contendenti. Sul campo gli invasori russi sono tornati in vantaggio. Grazie alle bombe FAB hanno riconquistato la supremazia aerea. Grazie ai produttori cinesi, nonché ad alcune aziende occidentali compiacenti, hanno avuto centinaia di missili al mese da scagliare sulle centrali elettriche ucraine, insieme a migliaia di droni Shahed forniti dall’Iran. Le abbondanti munizioni inviate dalla Corea del Nord e la possibilità di usare le “ondate umane” hanno permesso loro di avanzare a Est catturando quasi 3.000 kmq di posizioni ucraine nel Donetsk.
Inoltre, l’ottusità dei comandanti e la scarsa qualità dell’equipaggiamento in intere unità hanno portato alla diserzione di oltre 100.000 soldati ucraini. Per compensare le diserzioni e le 400.000 perdite (tracui 120.000 morti), il parlamento ucraino ha abbassato l’età minima per il servizio militare a 25 anni.
Nonostante queste difficoltà, i difensori dell’Ucraina hanno risposto con ingegno.
A partire da marzo, hanno imposto sanzioni “fai-da-te” al petrolio russo, attaccando con i droni le raffinerie e i loro depositi.
Ad agosto, poi, hanno occupato a sorpresa una piccola provincia russa vicino a Kursk, ottenendo risultati psicologici e non solo.
USA e UE sono stati messi di fronte al fatto compiuto che la Russia può essere attaccata senza grosse conseguenze, e hanno dato il via libera agli strike missilistici contro le basi aeree russe. Da allora, complice anche l’entrata in servizio dei primi caccia F-16, la supremazia aerea russa è svanita.
Inoltre, USA e UE non possono più chiedere di congelare populisticamente il conflitto lungo l’attuale linea del fronte (come già fecero nel 2014 e nel 2015) perché Putin non accetterebbe mai di cedere un lembo, ancorché minuscolo, di terra patria.
Ma il padrone del Cremlino ha avuto anche altre brutte notizie.
In un paese dove la popolazione lavoratrice è di 75 milioni di persone, si sente tutto il peso di 800.000 morti e feriti (più di quanti ne ebbe la Gran Bretagna nella seconda guerra mondiale!), di un milione di uomini tenuti sotto le armi, di almeno un milione di emigrati e di centinaia di migliaia di immigrati centroasiatici respinti dopo la strage islamista alla sala da concerto Crocus.
È già da qualche mese, quindi, che le nuove reclute (18.000 al mese) non riescono a coprire il vuoto lasciato dai caduti (22.000 al mese), il che, per la legge della domanda e dell’offerta, rende necessario aumentare sempre di più i salari e i bonus per chi si arruola.
L’inflazione ufficiale, così, è schizzata intorno al 10%, anche se le stime su quella reale oscillano tra il 15% e il 50% (con picchi del 90% su alcuni generi alimentari). Una situazione che sarebbe anche sopportabile, se nel frattempo i tassi d’interesse non fossero stati alzati al 21% per salvare almeno il potere d’acquisto del rublo.
Di fatto, nessuna famiglia o impresa russa oggi è in grado di chiedere un prestito, eccetto le aziende coinvolte nella produzione di armi. Queste sono già indebitate per più di 300 miliardi che, essendo stati investiti in esplosioni in giro per l’Ucraina che non generano alcun rendimento, non verranno mai restituiti alle banche.
Anche le riserve di liquidità della Federazione Russa sono agli sgoccioli: nel Fondo Sovrano che era stato accumulato coi proventi del petrolio restano poco più di 350 miliardi di yuan cinesi (50 miliardi di dollari). Nel 2025, si stima che basteranno a stento per coprire il vertiginoso aumento della spesa militare (da circa 130 a circa 180 miliardi) a parità di entrate da gas e petrolio. Una parità che peraltro è tutta da dimostrare, dopo che l’Ucraina ha chiuso l’ultimo gasdotto tra la Russia e l’Europa centrale e gli USA hanno sanzionato oltre 180 navi della “flotta fantasma”.
Tutto, insomma, lascia pensare che se gli alleati dell’Ucraina non cederanno, e manterranno a oltranza l’assedio economico alla Russia, questa dovrà presto ritirare il suo contingente di occupazione per mancanza di mezzi militari e finanziari.
Era questa la strada lunga e tortuosa che Joe Biden aveva scelto nel novembre 2022, per evitare ad ogni costo che Putin facesse sconsideratezze con le armi atomiche.
Ed è qui che entra in gioco la guerra mediatica. È l’unica, ormai, che il Cremlino può vincere, ma se venisse vinta gli darebbe a stretto giro la vittoria anche in quella economica e in quella sul campo.
Non è un mistero che in ogni nazione europea e nordamericana ci sia almeno un partito di estrema destra (e talvolta anche uno di estrema sinistra) che fa propaganda contro l’Ucraina mentre discolpa e ammira la Russia putiniana.
In alcuni casi fortunati, come il Canada o la Svezia, questi partiti vengono oscurati da altre forze che riescono a presidiare l’agenda classica della destra (anti-islamismo, anti-wokismo, scetticismo climatico, legge ed ordine) pur rifiutando sdegnosamente di farsi strumenti del dittatore russo. Lo stesso è capitato a sinistra nella Spagna di Sanchez. Ma nell’immensa maggioranza dei paesi la variante putiniana del populismo ha già divorato, o è sul punto di divorare, il ceppo originario. È così in Francia, in Gran Bretagna, in Germania e in Romania. È così in Austria, in Irlanda, in Belgio e in Olanda. Quanto all’Italia, il sostegno all’Ucraina aggredita dipende molto più dal caratterepersonale di Giorgia Meloni che non dalle convinzioni del dirigente medio di Fratelli d’Italia.
Per gonfiare i consensi di questi asset del Cremlino si sono mossi molti padroni dell’informazione. TikTok, programmato dal regime cinese, è il caso più noto. Ma anche “X”, il nuovo Twitter di Elon Musk, accorda uno spazio preferenziale ai contenuti filorussi. Telegram, fondato in Russia, ha potuto operare nel suo paese solo da quando ha acconsentito a servire come mezzo di spionaggio. Non dimentichiamo, poi, i media “tradizionali”: di recente i giornali italiani ci hanno stupiti sbandierando tutti in prima pagina una dichiarazione di resa da parte di Volodymyr Zelensky che non era mai esistita, se non ovviamente nelle agenzie di stampa del Cremlino.
Ora, la domanda sorge spontanea: con il trionfo di Trump negli USA la guerra mediatica non è già persa?
Fino a che punto il miliardario e il suo movimento “MAGA” si possono considerare degli asset del Cremlino?
Senz’altro, il culto della forza a scapito del diritto accomuna Trump, Putin e alcuni tecno-oligarchi come Musk che hanno aperte simpatie per entrambi. Ma è anche vero che abbandonare l’Ucraina non sarebbe affatto una manifestazione di forza. Inoltre, secondo alcuni centri studi, costerebbe agli USA la cifra folle di 800 miliardi in cinque anni, necessari per difendere ulteriori nazioni sovrane che a quel punto la Russia potrebbe reclamare.
In conclusione, Biden ha spianato una strada che sul medio periodo porterà al salvataggio dell’Ucraina, pur infliggendole un costo umano altissimo. Continuare a seguirla è la scelta più conveniente tra quelle al momento disponibili per Trump. Evitare che la guerra mediatica mieta successi fatali in Europa, intanto, è la scelta più conveniente tra quelle disponibili per noi.