Trump archivia la politica green? No, lo fa il mercato. Il caso BP

Daniele Venanzi
21/01/2025
Interessi

Fare i conti senza l’oste”, o meglio, senza l’azionista. È così che si può riassumere la scellerata amministrazione di Bernard Looney, ex CEO di BP dimessosi improvvisamente l’anno scorso per relazioni inappropriate con alcuni dipendenti. Il colosso inglese dell’energia attraversa un periodo di profonda crisi a causa di alcuni piani aziendali e previsioni azzardate di Looney – su tutte, la decisione di investire prepotentemente sulle rinnovabili (in particolare, sul costosissimo eolico offshore) e ridurre in modo significativo la produzione di energia da fonti tradizionali quali i combustibili fossili, sulla base di proiezioni sul calo del consumo di petrolio rivelatesi completamente errate.

BP ora sta per Back to Petroleum?

L’azienda punta ora sul successore Murray Auchincloss, chiamato a invertire la rotta e l’indirizzo green impresso alla compagnia dal precedessore, al fine di risollevare i conti e il valore del titolo aziendale (con il prezzo delle azioni che ha perso oltre il 15% su base annua) e ripristinare la fiducia degli azionisti, con misure di drastica spending review e downsizing della forza lavoro.

A pagare lo scotto, come spesso accade, saranno i lavoratori. Lo scorso giovedì, infatti, il gigante inglese, un tempo conosciuto come British Petroleum, ha reso nota l’intenzione di licenziare entro l’anno circa 4.700 dipendenti nelle sue sedi in tutto il mondo, ricorrendo – per giunta – anche a strumenti di intelligenza artificiale per determinare quali dipendenti lasciare senza impiego. A questi, si aggiunge il taglio di circa 3.000 collaboratori e consulenti esterni, per esuberi che, complessivamente, dovrebbero dunque toccare quota 7.700 (circa il 5% della forza lavoro complessiva di 90.000 risorse), in un più ampio piano di razionalizzazione e riduzione dei costi di circa 2 miliardi di dollari entro il 2026; piano che da solo, ha sottolineato Auchincloss, non basterà a porre fine alla crisi aziendale, annunciando la necessità di ulteriori tagli nel futuro prossimo.



D’altronde, nell’ultimo trimestre, al 30 settembre scorso, i conti aziendali mostravano segnali a dir poco allarmanti, con i ricavi in calo del 10% e, dato ancor più preoccupante, i margini di profitto al tappeto (-95%). Una prospettiva inquietante, per una compagnia il cui debito netto ha superato la cifra “monstre” di 24 miliardi di dollari.

Il nuovo amministratore delegato, intento a rovesciare i piani aziendali del precedessore, ha già sospeso, definanziato o completamente dismesso molti progetti relativi all’idrogeno pulito e alla produzione di energia a basse emissioni di carbonio, tornando gradualmente a gas e petrolio, nello sforzo di riportare gli azzerati margini di profitto aziendali a livelli accettabili. Decisioni, queste, che confermano quanto emerso già lo scorso ottobre in un articolo di Reuters che, citando fonti anonime, rendeva nota l’intenzione dell’azienda di abbandonare l’irrealistico obiettivo di ridurre del 25% la sua produzione di petrolio e gas entro il 2030. Per quanto riguarda, invece, la riduzione del massiccio impegno nell’eolico offshore, il mese scorso l’azienda ha annunciato una joint venture con la giapponese JERA. Secondo una ricerca della banca d’affari Jefferies, la partnership dovrebbe permettere a BP di ridurre da 10 a 4 miliardi di dollari il fabbisogno finanziario dei suoi progetti di energie rinnovabili fino al 2030.

Non solo BP

A fare compagnia alla “supermajor” inglese nella profonda revisione e riduzione degli obiettivi ambientali vi sono anche alcuni tra i più grandi concorrenti del settore, tra cui la connazionale Shell e la norvegese Equinor. Secondo alcune indiscrezioni, Equinor starebbe operando profondi tagli alla forza lavoro della sua divisione rinnovabili e Shell ha annunciato che non avvierà nuovi progetti di energia eolica offshore, limitandosi a mantenere in attività i parchi eolici che possiede attualmente in Europa, Stati Uniti e Regno Unito.

Sebbe, come visto, la tendenza nel settore privato sia ormai invertita, i danni di lungo periodo della bolla dell’eolico offshore, in termini economici e occupazionali, rischiano di avere una portata allarmante. Nel settore pubblico, per giunta, l’impegno a favore della fonte di energia in questione non conosce battute d’arresto. Si prenda, ad esempio, il caso studio della Polonia che, come riportato dall’agenzia di stampa PAP e da Reuters, intende investire addirittura 144 miliardi di euro in parchi eolici al largo del Mar Baltico, tra i cui costruttori dovrebbe figurare proprio la già menzionata Equinor. Cifre, quelle polacche, che da sole bastano a rendere già superate le stime di S&P, che lo scorso settembre quantificava nell’ordine dei 270 miliardi gli investimenti di tutta Europa nell’eolico offshore entro il 2030. Una mole di finanziamenti pubblici che non trova giustificazione, considerata la scarsissima sostenibilità finanziaria di una tecnologia che, allo stato attuale, risulta tra le più costose a nostra disposizione, come testimoniato dalle recenti stime della U.S Energy Information Administration, che calcolano il costo senza sussidi dell’eolico in mare in cifre superiori ai 120 dollari per MWh generato. Un abbaglio collettivo di cui rischiamo di pagare lo scotto per molti anni a venire.