Volkswagen, l’auto del popolo senza più popolo

Daniele Venanzi
24/01/2025
Interessi

Dopo un prolungato periodo di crescita asfittica, nel 2024 il Pil tedesco ha registrato una contrazione dello 0,2%, confermando la tendenza a una decrescita già riportata l’anno precedente (-0,3%). Le cause della battuta d’arresto dell’ormai ex “locomotiva d’Europa” sono molteplici, come riportato da Vincenzo D’Arienzo nella sua analisi per le nostre pagine: su tutte, i massicci investimenti infruttuosi nella transizione energetica, stimati tra gli 1,8 e i 6 trilioni di euro, il peso delle politiche migratorie e il costo divenuto ormai insostenibile di un welfare state mastodontico.

Lunga è la lista dei colossi dell’economia tedesca in profonda crisi e che, tra imponenti tagli al personale, piani di delocalizzazione e riduzione dei costi da miliardi di euro e chiusure di decine di stabilimenti produttivi, appaiono ora come dei giganti dai piedi d’argilla. Tra i casi di studio, potremmo citare dei titani della chimica come BASF, il cui titolo è recentemente crollato in borsa, o della siderurgia come ThyssenKrupp, che si appresta a tagliare 11.000 posti di lavoro in 6 anni. Le condizioni in cui versano centinaia di imprese tedesche lasciano presagire che la battuta d’arresto più brusca debba ancora arrivare, con la Bundesbank che lo scorso dicembre ha tagliato le previsioni di crescita del Pil per il 2025 dall’1,1% a un flebile 0,2%.

Sarebbe dunque errato prendere per buone, acriticamente, quelle spiegazioni semplicistiche e strumentali che adducono la congiuntura sfavorevole ai soli rincari dell’energia e delle materie prime, tentando maldestramente di celare quei problemi strutturali e cronici che affliggono il modello renano, di cui Volkswagen, tra i tanti gruppi industriali, rappresenta una delle incarnazioni più veraci.

La società quotata più indebitata al mondo

Con un debito che ha già abbondantemente superato quota 200 miliardi, il colosso di Wolfsburg è oggi la società quotata in borsa più indebitata al mondo, con un deficit che diviene, di anno in anno, sempre meno sostenibile per via dei dati di vendita in riduzione (-2,3% delle consegne nel 2024), dell’utile a picco (-63% su base annua nel terzo trimestre del 2024) e di un margine già asfittico (3,6%) e in calo costante. Il recente accordo tra parti sindacali e dirigenza, che prevede un ridimensionamento dei salari tra il 4 e il 6% e una riduzione massiccia della produzione dei veicoli (-700.000 nella sola Germania) per scongiurare la chiusura degli stabilimenti tedeschi, appare come un grido disperato volto solo a rimandare l’inevitabile necessità, da qui al 2035, di tagliare drasticamente la forza lavoro di circa 35.000 unità nella sola madre patria del marchio. Il tutto, per produrre un risparmio annuale di circa 1,5 miliardi nell’immediato, con l’obiettivo di raggiungere quanto prima quota 4 miliardi, che risulterebbe, ad ogni modo, insufficiente a risanare i conti aziendali.

“La Fiat nella sola Torino ha centoventimila operai, quindicimila le industrie legate a questo destino”.

Così un pionieristico Lucio Dalla, già nel 1976, rifletteva sulle implicazioni dell’indotto dell’automotive nella sua immaginaria “Intervista con l’Avvocato”. Il momentaneo salvataggio degli impianti Volkswagen, allo stesso modo, non garantisce la sopravvivenza di un indotto il cui destino è strettamente legato a quello del colosso di Wolfsburg e che appare sempre più agonizzante, con ripercussioni che varcano i confini della sola Germania. Tra le situazioni più gravi, notorio è il caso Schaeffler, multinazionale che opera come fornitore di Volkswagen e impiega 120.000 dipendenti, dei quali si vede ora costretta a licenziarne 4.700, con la contestuale chiusura di due fabbriche in Europa, tra cui, probabilmente, il sito produttivo della italiana Momo nel novarese. Parimenti, la francese Michelin ha annunciato la chiusura di altrettanti stabilimenti oltralpe entro l’inizio del 2026. L’effetto domino si propaga anche a colossi come Bosch, che ha confermato un taglio di circa 10.000 posti di lavoro, e Continental, storico marchio produttore di pneumatici che effettuerà un downsizing di circa 30.000 dipendenti nei prossimi anni.

Le cause del declino

Passati dunque in rassegna gli effetti più evidenti del declino di quello che rimane il secondo produttore di automobili a livello globale, non resta che individuarne le cause, tra cui la rigidità della governance, la concorrenza asiatica, la congestione della supply chain e l’ormai manifesta inadeguatezza del vecchio modello renano di concertazione ed esacerbata sindacalizzazione del lavoro. Sarebbe tuttavia impossibile non annoverare, in primis, lo scandalo dieselgate del 2015 – che, a detta di molti, rappresenterebbe l’origine della spirale recessiva. Pur costituendo una grave frode ai danni dei consumatori e delle autorità regolatorie europee e statunitensi, la falsificazione da parte di Volkswagen dei reali livelli di emissioni del suo tristemente noto motore diesel TDI è indice di una crescente difficoltà a soddisfare requisiti ambientali sempre più stringenti, numerosi e in continuo mutamento e che, richiedendo ingenti investimenti in ricerca e sviluppo senza garanzia di risultati, si traducono in aumenti dei prezzi delle vetture: un gigantesco assist alla concorrenza cinese e una disfatta per i lavoratori europei, sempre più vittime di ineluttabili processi di delocalizzazione verso economie in via di sviluppo.

Che le difficoltà non riguardino il solo gruppo Volkswagen ma l’intera industria, lo dimostra la celebre “Lettera all’Europa” pubblicata lo scorso marzo da Luca De Meo, amministratore delegato di Renault: più che un’esortazione, un grido d’aiuto a nome dell’intero settore, che mette sul principale banco degli imputati proprio l’ossessione ideologica e insostenibile dell’Unione Europea per la totale decarbonizzazione entro il 2035, per la quale le case automobilistiche europee hanno già stanziato la cifra “monstre” di 252 miliardi di euro nel periodo 2022-2024. Il tutto, esacerbato dall’entrata in vigore, in media, di 8-10 nuovi regolamenti europei ogni anno (con relative minacce di sanzioni in caso di mancato adeguamento, già quantificate in 1,5 miliardi per il 2025 per la sola Volkswagen) e da un quadro avverso al business ed egregiamente illustrato da De Meo con una massima da scolpire nell’oro: “La Cina supporta l’industria, gli Stati Uniti incentivano, l’Europa regolamenta”.

Tra le raccomandazioni del CEO del gruppo francese figura l’esortazione alle istituzioni europee di adottare un approccio di neutralità tecnologica. Tornando al caso Volkswagen, infatti, sarebbe ingeneroso non considerare l’impatto dell’oltranzismo green adottato dall’UE sulle performance aziendali, orientando anche quelle scelte di investimento rivelatesi completamente fallimentari – operate forse per fare greenwashing e ripulirsi l’immagine dallo scandalo dieselgate. Notorio, ad esempio, è il coinvolgimento della casa automobilistica in Northvolt, azienda svedese produttrice di batterie al litio per autoveicoli di cui abbiamo trattato in questa analisi. Lo scorso novembre, dopo aver accumulato oltre 5 miliardi di debiti, nonostante gli ingenti finanziamenti piovuti dalla Banca Europea per gli investimenti, la startup scandinava ha dichiarato bancarotta negli Stati Uniti. Volkswagen, tramite un investimento di oltre 13 miliardi, ne era azionista di maggioranza. Il timore, ora, è che analoga sorte possa spettare al generoso contributo elargito dal gigante di Wolfsburg all’americana Rivian, azienda statunitense produttrice di veicoli elettrici con cui Volkswagen ha sancito una joint venture per un valore di circa 6 miliardi di dollari. Vista l’aria che tira, lo scorso ottobre il Cato Institute si interrogava se l’azienda sarebbe rimasta in vita abbastanza a lungo da poter spendere tutti i sussidi ricevuti dagli Stati di Michigan, Kentucky e California. Impossibile, d’altronde, optare per investimenti più remunerativi e realmente lungimiranti in un contesto di demonizzazione del diesel e di crociata ideologica contro l’endotermico.

A ben guardare, il caso Volkswagen offre una prospettiva unica sulle tante e sovrapponibili ragioni del declino non solo dell’automotive, ma di tutta l’industria tedesca ed europea, del cui suicidio economico abbiamo già formulato una diagnosi. “Ascesa e declino delle nazioni” di Mancur Olson, uno tra i più grandi teorici della public choice e del funzionamento dei gruppi di interesse (di cui Bruxelles sembra essere diventata capitale mondiale), reca un sottotitolo eloquente: “crescita economica, stagflazione e rigidità sociale”: un identikit incredibilmente fedele di tutti i mali che affliggono il Vecchio Continente, a cui è sempre più necessario un drastico cambio di rotta.